Il lockdown ci ha resi paradossalmente liberi di stare a casa


21 maggio 2020. 
Uno o due mesi fa, riflettendo sulla mia esperienza e confrontandomi con alcuni colleghi ho messo a fuoco un concetto: con l’obbligo di stare a casa, molte persone sono state finalmente 
libere di stare a casa. Voglio sorvolare qui sugli aspetti più evidenti e devastanti del confino obbligato, che per molti ha rappresentato la rovina economica con tutta l’angoscia che ne consegue. Intendo invece concentrarmi su un vissuto presente in chi, per sua fortuna, non è stato sommerso da tale angoscia. 

Parlando di libertà di stare a casa, non faccio riferimento al sollievo che qualcuno può aver provato nel prendere una pausa dal lavoro e potere finalmente dedicare un po’ di tempo ai figli o al coniuge o al convivente. Alludo invece alla libertà di stare nel posto in cui, volenti o nolenti, ci si sente più a proprio agio. Non è facile scegliere di stare a casa quando si potrebbe uscire: ci sono voci insistenti e moleste, e dentro e fuori di noi, che invitano a uscire. Nel momento in cui stare a casa diventa un obbligo, siamo sollevati da tanti conflitti interni ed esterni e finalmente liberi di ricavare il meglio dal nostro autoconfinamento.

Come un periodo di freddo e pioggia, il confinamento obbligato ci rende liberi di valorizzare quello che possiamo fare a casa, e così a questa attività ci possiamo dedicare senza perdere tempo, energie mentali e buonumore in ruminazioni parassite e paralizzanti con cui valutiamo anticipatoriamente ciò che potremmo fare e ci confrontiamo con gli altri, reali e immaginari, e con quello che supponiamo facciano loro con gioia e appagamento.

Notoriamente, i momenti in cui “tutti si divertono” o “la gente si vuole bene” sono tra i più difficili da affrontare per le persone che si sentono sole: il terribile Natale, l’angosciante ultimo dell’anno, la festa degli innamorati, i ritrovi e le rimpatriate fra compagni, colleghi, commilitoni, soci ecc., le sagre, le notti bianche, le festività varie, domeniche in primis, i balli, i concerti, il carnevale, l’estate con i viaggi e le vacanze, gli inizi e le fini, le vittorie… Sono tante le occasioni in cui “dovremmo” divertirci e godere della presenza di altre persone e noi non ci riusciamo: “Accidenti a me, quanto sono stupido e incapace. Gli altri fanno cose bellissime e io no, sono fifone, musone, privo di iniziativa, maldestro, asociale, depresso”.

Con il confinamento obbligato, stare a casa ha avuto di meno il senso di una rinuncia a certe esperienze che immaginiamo appaganti per gli altri. Ed è stato un sollievo più in generale per tante persone che vivono gli incontri sociali come angoscianti momenti di confronto con gli altri o con le proprie ambizioni o i propri sogni irrealizzati. Nel momento in cui non siamo i soli o non siamo in pochi a restare a casa, non uscire assume un senso psicologicamente del tutto diverso. Non siamo più da meno.

Non ci ritroviamo in casa perché abbiamo detto di no a qualcuno, o perché non abbiamo preso l’iniziativa di organizzare qualcosa insieme a qualcuno, o perché abbiamo abbandonato un abbozzo di programma sconfitti dai dubbi e dalle esitazioni, o perché non siamo stati capaci di desiderare nulla che si possa fare fuori casa. La responsabilità è di altri (contro cui possiamo eventualmente scagliarci con veemenza). Così, liberi dalla delusione per noi stessi e dal rimuginio sulle presunte grandi occasioni perse e sulla nostra incapacità di “goderci la vita”, disponiamo di spazi e processi mentali che possiamo impiegare finalmente per fare quello che è davvero nelle nostre corde e alla nostra portata.

E questo mi fa venire in mente un altro regalo che ci ha fatto il confinamento. Ha rinnovato in noi il desiderio delle cose che diamo per scontate e che, essendo sempre a nostra disposizione, non ci fanno più alcun effetto. Dato che si desidera solo ciò che non si possiede già, lo stato di deprivazione generale che abbiamo vissuto per un paio di mesi ci ha fatto riscoprire tanti piaceri.Infine, credo che sia in gioco anche un altro meccanismo psicologico (non certo l’ultimo!) nel vivere come un sollievo il confinamento imposto dal nostro governo.

Tante persone si sentono infelici, anche se, come è stato detto loro, “non gli manca niente”. E se dovrebbero essere contente ma non lo sono, soffrono doppiamente, perché, oltre che infelici, si sentiranno ingrate e difettose. I sacrifici imposti in questo periodo, le mancanze, la separazione dai propri cari e dagli amici, l’incertezza, la paura di ammalarsi o il fatto di esserlo, l’apprensione e il dolore per chi è esposto o colpiti dal virus o dalla perdita di reddito, gli scenari foschi paventati spesso dai media e molto altro ancora ci autorizzano a non essere contenti; anzi, ci invitano a non essere contenti. Così, chi non è contento non ha da biasimarsi. Anzi, ci sentiamo uniti a tutti quelli che, come noi, sono smarriti e deprivati. Sentiamo tutta la forza della solidarietà, ed è un sentimento potentissimo perché abbraccia una vasta moltitudine di persone.