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Che fine ha fatto la mia città?



Ogni volta che si rinnova un ambiente urbano, c’è lo stupore e il desiderio conoscere e utilizzare le nuove opportunità. Ma la trasformazione di un ambiente a cui si è attaccati affettivamente possono essere vissute anche con senso di nostalgia, come la perdita di qualcosa che ci appartiene. 

I cambiamenti di una città vengono vissuti in modo diverso dalle persone che li vedono accadere gradualmente e da quelle che li percepiscono improvvisamente. Chi vive in una città e la vede trasformarsi poco alla volta avrà tutto il tempo per crearsi nuove routine fatte di azioni, incontri e frequentazioni. Darà di giorno in giorno i suoi giudizi estetici e funzionali sulle novità urbanistiche. Valuterà se il denaro della collettività è stato speso nel modo migliore, se l’innovazione comporta dei vantaggi per sé o per altri, cosa si guadagna e cosa si perde. Costruirà i suoi giudizi insieme alle altre persone che hanno voluto o hanno subito il cambiamento. Comunque, in definitiva, la novità nel giro di poco tempo non sarà più tale. La sorpresa e il desiderio di conoscere e provare lasceranno spazio alla prevedibilità e alla routine. Nell’insieme la mappa mentale dello spazio personalmente rilevante non subirà grandi scossoni. 


Chi invece torna dopo anni in una città trasformata dove ha frequentato una scuola, ha avuto una famiglia, ha lavorato, ha vissuto amori e amicizie, o ha combattuto una guerra, vive ben altra esperienza. Chi va via da una città per molti anni e poi ci ritorna si sente “spaesato” (“out of place”), senza paese. È curioso che si dica proprio “spaesato” per dire “confuso, smarrito, che ha difficoltà ad ambientarsi, disorientato e intimidito dalla novità o dal cambiamento”. 


La nostra memoria si aggrappa ai luoghi e alle persone. Tornando dove abbiamo vissuto e frequentato delle persone significative, rivediamo lo scenario di tanti episodi. Quando si rivede un vecchio amico si rievocano le esperienze vissute insieme e le conoscenze comuni. Ci si chiede che ne è stato di questo o di quello. I bambini non ci sono più, si sono sposati, magari hanno dei figli a loro volta… Se ti passassero accanto non li riconosceresti…


Cos’è più desolante, tornare con un amico ritrovato in un posto ormai irriconoscibile o tornare in un posto rimasto intatto e non ritrovare più nessun conoscente? Difficile rispondere. In entrambi i casi si avverte un senso di vertigine. C’è qualche dato sensibile che dà immediatamente e improvvisamente la misura concreta dei cambiamenti connessi al tempo trascorso impercettibilmente. Ma certamente la situazione peggiore è quella che si verifica più spesso: non orientarsi più in un posto che una volta era familiare e non riconoscere più nessuno. Quello che in passato si è vissuto in quei luoghi esiste ormai soltanto nel ricordo che, tanto nell’oblio quanto nella rimembranza e nel racconto, si deforma impoverendosi e stereotipandosi, si deteriora. Allora chi ha voglia di fermarsi a ricordare può sentirsi veramente unico e solo. 


La città è il teatro della nostra storia. I cambiamenti urbani, se creano nuove opportunità per noi, possono essere vissuti positivamente, quando ci si proietta nel futuro; ci si immagina di poter fare cose nuove, o le solite cose in modo diverso e migliore. Ma se ci si orienta verso il passato, sono minacce per la continuità della nostra memoria autobiografica e quindi per il nostro senso di identità. Per dire chi sono io, devo pensare a quello che ho vissuto. E tutte le mie esperienze hanno dei protagonisti, delle comparse e uno scenario fisico. 


R. Sebba (“Environment and Behavior”, 23, 1991) ha studiato la percezione dei paesaggi dell’infanzia analizzando le “autobiografie ambientali”, cioè le storie di vita delle persone attraverso la descrizione dei luoghi significativi del passato. Dai ricordi degli adulti emerge che dell’infanzia si ricordano soprattutto i luoghi esterni alla casa, e le attività descritte sono in stretta relazione specialmente con l’ambiente naturale. L’esperienza particolare dell’ambiente che ha un bambino conserva caratteristiche fortemente sensoriali anche nella memoria ed è un’esperienza diretta, immediata, con forte coloritura affettiva, in cui l’ambiente naturale è lo stimolo centrale e non, come può succedere in altre età della vita, uno sfondo per eventi più rilevanti.


Per quanto possano essere miglioramenti, i cambiamenti in una città a cui nel bene o nel male si è legati dall’infanzia, contengono sempre un elemento di perdita. Sul piano individuale e soggettivo sono una profanazione, un affronto. Danno l’idea che la collettività che ora vive lì non ha a cuore il nostro passato personale. E benché ciò sia perfettamente giustificato e comprensibile sul piano razionale, coglie emotivamente impreparati.


Chi torna rivede i volti e sente l’eco di voci. Ricorda i tragitti e le conversazioni avvenute in quel luogo. Le preoccupazioni, le convinzioni e le speranze del periodo. I legami più importanti. Ricorda lo stato d’animo con cui arrivava o se ne andava. E come tutto ciò possa essere accaduto è un mistero, perché se non ci fossero quei luoghi e quelle persone a dare testimonianza potrebbe essere tutto un sogno, da quante cose sono cambiate. Oppure, rivisitando i luoghi del passato, può accadere l’inverso e si possono ritrovare i semi e le tracce di trame di pensieri e di affetti ancora attuali. Allora la vertigine proviene dal fatto di riscoprire ciò che è sempre stato noto, dal constatare come certe sensazioni – preoccupazioni, umori, ambizioni - che ci accompagnano nella vita, e che ci sembrano particolarmente personali e attuali, siano rimaste in realtà sempre in noi, declinandosi diversamente a seconda dei periodi della vita, ma restando sostanzialmente uguali. 

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