Ma l'ho detto io? Veramente?


L’ascolto da parte di un'altra persona, in modo simile alla scrittura del diario o alla descrizione dei propri pensieri e sentimenti più profondi (alla maniera suggerita, per es.,  da J. Pennebaker, Scrivi cosa ti dice il cuore, Erickson), permette di costruire un nuovo livello di consapevolezza. 

Essere ascoltati dà la possibilità di scoprire che cosa si pensa. Dà la possibilità di unire in un racconto coeso, o perlomeno in frasi, quelli che erano fino a quel momento pensieri sparsi, impressioni. 

Non di rado dopo avere detto una cosa mai confidata a nessuno ci si stupisce di ciò che si è detto. Ci si stupisce di pensare ciò che si pensa e di provare ciò che si prova. Questo è segno che quei pensieri, pur essendo propri, sono organizzati ora in una forma nuova. Ora si possono avere dei pensieri intorno a quei pensieri (che tra l’altro in questo processo si sono chiariti  o perlomeno hanno preso una forma più definita di prima, una forma tra le varie possibili). Quindi quei pensieri diventano un oggetto del pensiero, anziché - o potrei dire anche “oltre a”-  la forma stessa del pensiero. Essi diventano in altre parole pensieri di cui si ha una consapevolezza cosciente. 

Questo per forza di cosa porta a pensarli in modo diverso la prossima volta, a ri-pensarli. Si sfrutta la ricorsività del pensiero per costruire nuovi piani di un’impalcatura di cui si è personalmente parte e da cui considerare gli elementi di un problema: il rapporto con sé stessi (tra il Sé e il Sé), il rapporto con gli altri aspetti della propria vita, il rapporto tra gli elementi del proprio sistema di conoscenza (cioè il rapporto tra concetti).

L’espressione dei propri pensieri conferisce ad essi è una forma totalmente nuova che a volte le persone che li hanno espressi non li riconoscono come propri. Sia nel corso di sedute di psicoterapia sia nel contesto di rapporti di amicizia, mi è capitato più di una volta di ripetere esattamente le stesse parole appena espresse dal mio interlocutore (facendo molta attenzione a non aggiungere o togliere elementi di contenuto e a non aggiungere alcun tono affettivo!) e di rimanere spiazzato dalla reazione del mio interlocutore, che non riconosce come proprio ciò che ha appena affermato e dice di no e scuote la testa e si affretta a dare una nuova versione: “No, è che…”. Forse si tratta di persone particolarmente inconsapevoli di ciò che pensano? O forse quel “no” non va inteso come “Non è questo che ho detto”?

Un ascolto utile allo sviluppo di un’impalcatura di coscienza e conoscenza deve permettere all’interlocutore di andare in profondità. Dev’essere un ascolto che non ostacoli e un ascolto che favorisca l’espressione dell’interlocutore. Un ascolto che colga con intelligenza il contenuto concettuale e il risvolto personale e affettivo del racconto stesso. 

Si può semplicemente rimanere in silenzio - con un silenzio che esprima attenzione e interesse, assenza di giudizi negativi su chi parla e sui contenuti del suo discorso, comprensione del contenuto espresso. Gli ostacoli all'ascolto sono stati analizzati molto bene da Thomas Gordon (allievo di Carl Rogers) che ha descritto le famose dodici categorie di risposte che normalmente riceviamo quando accenniamo a una nostra difficoltà o a un nostro problema (vedi per es., Gordon, Genitori efficaci, La Meridiana). Oltre a restare in silenzio si può anche fare qualcosa che ha l’effetto di un “rilanciare”, di un invito ad approfondire nelle direzioni (che si immaginano) utili a una comprensione più completa e più approfondita degli elementi in gioco nel problema soggettivo dell’altro. 

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