“Papi e mami, mami e papi: vi adoro”


La proposta di legge a prima firma di Fabio Rampelli, deputato di Fdi e vicepresidente della Camera, di applicare multe fino a 100mila euro contro chi usa le parole inglesi nella pubblica amministrazione mi ha fatto venire voglia di riesumare un articolo leggero che ho scritto una ventina di anni fa sulla diffusione della cultura americana in Italia.

È più forte di me. Se penso all’influsso del modello statunitense sullo stile di vita degli italiani mi non riesco a non pensare ad Alberto Sordi in Un americano a Roma (regia di Steno, 1954). Il protagonista, il romanissimo Nando Moriconi, è un ragazzone sfaccendato che vive con “papi e mami”, come li chiama lui, e rimpiangendo continuamente di non essere nato “nel Kansas City”, minaccia di suicidarsi gettandosi dalle mura del Colosseo se qualcuno non lo porterà negli Stati Uniti. 


La storia è ambientata a Roma nell’immediato dopoguerra. Gli americani hanno appena liberato l’Italia. E Nando è ammaliato, totalmente identificato nei suoi divi cinematografici americani. In una delle scene iniziali è davanti allo schermo di un cinema, sprofondato sul sedile. Biascica pop-corn e osserva a occhi spalancati. Quando parla il suo attore preferito, smette persino di masticare per essere più attento… e beve, assorbe tutto. A pellicola finita è l’ultimo ad alzarsi; si ferma a rimuginare sulle ultime scene: sono meravigliosi questi americani. 


Nando indossa sempre un paio di jeans, una t-shirt, un cappellino da baseball e stivali da cow-boy. Parla con accento americano e bocca inclinata alla John Wayne. Cammina piegato in avanti dondolandosi, con le gambe arcuate, e con sguardo circospetto regge in mano la sua pistola immaginaria – il pollice è il grilletto e l’indice la canna. Uscito dalla sala cinematografica simula alcune scene: immagina di tendere un agguato e sta tutto teso, ritirato dietro a una colonna; il nemico si avvicina. Invece è un metronotte che lo guarda come un povero scemo e lui imbarazzato spiega che la sua pistola immaginaria “è scarica”.


A casa vorrebbe mangiare come gli americani: “moustarda”, burro di arachidi, latte, yogurt ecc. Ma poi rinuncia; il latte lo dà al gatto, con la mostarda ci “ammazza ’e cimici” e trangugia gli spaghetti preparati dalla povera madre, al limite della sopportazione con quel figlio stupido. “Maccaroni, vi dissstruggo”, dice, e si strafoga. 


Insomma, questo buffo personaggio dà vita a una galleria di americanismi sviluppatisi in Italia dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti. Probabilmente nel primo dopoguerra a non si immaginava quanto il modello americano avrebbe influenzato lo stile di vita italiano negli anni a venire. 


La nostra lingua, depurata dagli anglicismi nell’epoca del fascismo, ha poi assorbito moltissime di quelle parole che sono entrate sia nel linguaggio di tutti i giorni sia nei vari gerghi, come quello del marketing, della finanza, della politica, dello spettacolo, per non dire poi di tutto ciò che ha a che fare con il computer (il vecchio elaboratore elettronico) e Internet. Così la mattina molti chiedono corn-flakes e a pranzo si mangia in un fast-food. A cena, cibi e bevande light. Al lavoro sentiamo molto gli effetti del computer e della new economy ma anche del mobbing e del turnover. Il tempo libero – poco – lo impegniamo con shopping, jogging e zapping - tra un talk show, una soap opera o un reality show. E la sera i giovani e i più fortunati fanno mezz’ora di petting


Ancora oggi molti pubblicitari scelgono di usare testimonial con uno spiccato accento americano per fare presa sul loro target. Infatti gli americani ci piacciono molto, altrimenti non li imiteremmo. Loro sono potenti, disinvolti, sicuri, coraggiosi. E poi pragmatici, orientati all’obiettivo ed efficaci. Si presentano a noi come un popolo ottimista che ama simboli e uniformi. Hanno le macchine più grandi delle nostre, e si sa per un maschio italiano che cosa voglia dire la macchina… Quando li vediamo nei film - infatti è prevalentemente su qualche schermo che li vediamo - il più delle volte parlano in modo conciso, quasi solenne. A parte certi antieroi come il vecchio Woody Allen che del resto da molti era considerato semplicemente “uno sfigato”. Gesticolano più di noi e fanno un sacco di espressioni esagerate con il volto. 


E soprattutto piacciono ai nostri figli che guardano i loro programmi televisivi diverse ore al giorno. Venti anni fa - quando ho scritto questo articolo - vedevo bambini di otto anni con la maglietta di Eminem che gesticolavano come certi afroamericani che si vedevano notte e giorno su MTV. Mi sorprendo constatando quanto abbia attecchito la moda hip-hop. D’altra parte forse è una sorta di corrispettivo di altre mode anni Cinquanta, come il rock and roll e il giubbotto di pelle nera alla James Dean, o anni Sessanta, come gli hippy e la beat generation. Se negli anni Settanta qui era più di moda l’eskimo, è pur vero che tutti i bambini maschi giocavano ai cow-boy e agli indiani e le femmine con la Barbie e il Ken. Comparvero allora i primi skateboard e tutti leggevano i giornalini di Topolino.


Altre volte parliamo e ci comportiamo come gli americani non tanto per simpatia ma piuttosto perché importiamo certe loro invenzioni o pratiche con tutto il linguaggio che gli ruota intorno. Questo è il caso per esempio del computer. Se il computer fosse un’invenzione francese, ammettiamo, e il più grande produttore di sistemi operativi fosse francese, il gergo informatico avrebbe tutto un altro sound.


Naturalmente il nostro stile di vita somiglia spesso a quello statunitense che conosciamo attraverso i media anche perché la nostra organizzazione sociale e le nostre strategie politiche somigliano a volte alle loro. Rispetto al passato, con lo sviluppo e la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione, possiamo importare le loro pratiche molto più velocemente e viverle insieme a loro, e non con qualche anno di ritardo come in passato. 


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