“Non ho paura di niente”: la sfida della morte negli sport estremi


Dando un’occhiata ai video brevi pubblicati sui social ricavo l’impressione che siano veramente tante le persone che si riprendono mentre mettono a repentaglio la propria vita. Mi riferisco a persone che in montagna percorrono cenge o creste sopra strapiombi senza essersi assicurate; che fanno scialpinismo lungo canaloni molto ripidi e stretti in mezzo alle rocce oppure lungo altri ripidi pendii fortemente innevati, con il rischio di staccare valanghe (le quali spesso in effetti in effetti poi si staccano) o che con gli sci, lungo questi stessi pendii, fanno salti straordinariamente alti e lunghi, eventualmente con piroette e/o salti mortali. Mi riferisco alle persone che si arrampicano in free solo, cioè senza alcuna sicura, per pareti lunghe anche mille metri, o a quelle che affrontano escursioni o arrampicate senza usare tutte le precauzioni previste.


Mi riferisco a ragazzi in mountain-bike che si lanciano a tutta velocità lungo pendenze tali che sarebbe impossibile frenare o in cui basterebbe una minima esitazione o un tempismo non proprio perfetto per finire contro un albero oppure in un dirupo. A quelli che si lanciano dalla vetta di una montagna o da una cengia con la tuta alare e, non contenti del rischio che già così corrono, passano volando in mezzo o sotto a ostacoli, come per esempio rocce, alberi oppure edifici (il cosiddetto proximity flying). O anche a quelli che si lanciano con il parapendio – oppure con il paracadute, e lo aprono (o tentano di aprirlo) solo dopo avere fatto varie evoluzioni pericolose. A quelli che si tuffano da alte scogliere (magari facendo piroette e capriole durante la discesa) o che si gettano lungo (o dentro) impetuose cascate. A quelli che fanno surf sfidando le onde più grandi del mondo, tonnellate di acqua che possono travolgere, tenere sotto acqua e annegare, spezzare le ossa a chiunque. A quelli che fanno parkour. A quelli che si lanciano con lo skate board su oggetti inclinati come corrimano, o che fanno lunghi salti. A quelli che si lanciano con moto o biciclette lungo trampolini compiendo salti lunghissimi e nel frattempo magari, mentre sono il volo, si staccano e si allontanano dal mezzo e ci si risiedono sopra prima di atterrare. L’elenco è lunghissimo e continua ad allungarsi. In mezzo a questi video ce ne sono alcuni che mostrano incidenti gravissimi occorsi durante l’esecuzione di queste attività.


Si vedono poi molte persone che compiono gesti che non possono che nuocere, come gettarsi con una bicicletta, senza rincorsa, da oltre due metri di altezza, o tuffarsi da un scala, che nessuno sostiene, verso una piscina, o mille altre cose stupide e dannose. La fantasia umana non ha limiti. Sorprende che essa venga applicata per compiere bravate autolesionistiche di cui è difficile comprendere il senso mentre ci si riprendere con un cellulare.


Nel loro editoriale al fascicolo monografico intitolato Understanding Extreme Sports: A Psychological Perspective della rivista “Frontiers in Psychology”, Brymer et al. (2020) spiegano che negli ultimi decenni è emersa una nuova categoria di sport, variamente chiamati “estremi”, “d’avventura”, “d’azione” o “lifestyle”: si tratta, secondo una definizione degli stessi autori, di “attività che si collocano ai limiti estremi delle attività individuali avventurose per il tempo libero, in cui un errore di gestione o un incidente potrebbe causare la morte” (p. 2).


In un contributo specificamente dedicato alla definizione dell’espressione “sport estremo”, Cohen, Baluch e Duffy (2018) propongono una nuova definizione: un’attività (prevalentemente) competitiva (in termini comparativi o autovalutativi) nelle quali il partecipante è sottoposto a richieste fisiche naturali o insolite e in cui l’insuccesso ha un’elevata probabilità di provocare lesioni o la morte del partecipante . In gran parte della letteratura di ricerca sull’argomento, osservano gli autori, l’espressione “sport estremi” sembra essere usata in modo intercambiabile con l’espressione “sport ad alto rischio”. In queste attività quindi il performer si misura con altri o con sé stesso giocandosi la vita. In considerazione di questa concentrazione su di sé, di questo porre al centro della prestazione il proprio valore a costo di morire, nella letteratura di ricerca sugli sport estremi essi sono considerati “egocentrici” (MacIntyre et al., 2019).


Gli sport estremi stanno rivoluzionando le nozioni di sport, esercizio e attività fisica e stanno superando molti sport tradizionali in termini di partecipazione e influenza. Sono diventati un fenomeno globale importante, con un notevole impatto sociale ed economico. Negli ultimi dieci anni circa, il numero di persone che sport estremi è aumentato e la tendenza attuale suggerisce che gli sport tradizionali passeranno presto in secondo piano rispetto a queste “nuove ed entusiasmanti opportunità” (Brymer et al., 2020).


Gli sport estremi, definiti in questo modo, non sono certo una novità. Ci sono sempre stati, per esempio, tuffatori particolarmente arditi, alpinisti impavidi e trapezisti che si librano nel vuoto in un circo senza la protezione di una rete. Quello che colpisce una persona come me, che ha conosciuto il mondo prima di Internet e dei cellulari, è 1) la diffusione del fenomeno e del senso di vuoto e disperazione che empaticamente è possibile immaginare alla base di questi atti; 2) la possibilità di osservarne un’infinità di manifestazioni su qualsiasi social – e la corrispettiva volontà di esibirsi; 3) la corsa alla prestazione sempre più estrema, con gli incidenti che inevitabilmente ne derivano; 4) l’emulazione del gesto estremo in quanto gesto estremo da parte di persone con preparazione insufficiente.


Che cosa porta allora tante persone a mettersi volontariamente in situazioni in cui un errore personale o un evento che non è sotto il proprio controllo potrebbe causare menomazione permanente o morte?


Cerco di dare una risposta approfondita nell'articolo pubblicato sul numero 29 della Rivista di Psicologia dell'Emergenza e dell'Assistenza Umanitaria (vai all'articolo).


Qui riporto le conclusioni. 


Il performer estremo ha sviluppato con l’esercizio ripetuto notevoli abilità e un forte senso di autoefficacia nel suo sport, da cui è attratto perché si aspetta di ottenere dall’allenamento e dalle performance di alto livello una serie di risultati positivi – in termini materiali, sociali e autovalutativi – che abbiamo provato a elencare e a esaminare brevemente. Grazie alla sua perizia e autoefficacia può dare prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie.


È una sorta di “eroe individualista”, nel senso che non si sacrifica né in nome di altri né in nome di un ideale – se non eventualmente dell’ideale dell’affermazione di sé, della propria potenza e del proprio coraggio. Tendenzialmente potrebbe essere una persona che ha un cattivo rapporto con la propria paura, le proprie debolezze, la propria vulnerabilità e l’emotività, e che attraverso lo sport estremo nega e compensa i limiti che percepisce in sé, forse spinto dalla cultura che ha assorbito nelle relazioni dirette e mediate della sua vita. Spesso ha bisogno di sensazioni forti.


Spesso è una persona impegnata in una battaglia personale contro certe parti di sé, tra cui l’istinto di autoconservazione.


Personalmente credo che il vero eroe sia colui che si impegna fino a mettere a repentaglio la propria vita in nome di un bene riconosciuto dalla società. Può trattarsi del bene della collettività (per es., l’astronauta che agisce per il progresso della scienza dell’umanità o il militare che compie un’azione ardita e che rovescia le sorti di una guerra) o di un gruppo di persone più ristretto (mi viene in mente il film Schindler’s List) o di un proprio caro (per es., un donatore di organi) o semplicemente di un altro essere umano (penso, per esempio, alle squadre di soccorso alpino). È eroe colui che si sacrifica in nome di un ideale: la patria, la libertà, la scienza, il benessere altrui.

Concordo con la Horney quando scrive:


Se ci sacrifichiamo per una causa che, oltre a noi stessi, la maggioranza delle persone normali possono realisticamente giudicare costruttiva dal punto di vista del suo valore pratico per l’umanità, ciò è certamente tragico, ma anche utile e significativo. Se invece sprechiamo la nostra vita perché ci siamo resi schiavi del fantasma della gloria per ragioni ignote a noi stessi, ciò assume il terribile aspetto di un tragico sciupio” (ibidem, p. 27).


La vita è già tanto difficile di per sé, ci riserva grandi dolori inevitabili come la nostra malattia e morte e quella dei nostri cari. Forse è proprio per distrarsi da questo triste dato di fatto che molti sfidano la menomazione della morte, quasi a voler conquistare su di esse un illusorio controllo. Tuttavia non possiamo fare nulla per sottrarci alla malattia e alla morte in prima e seconda persona. Anzi, se vogliamo fare qualcosa per non anticiparle inutilmente, possiamo astenerci dalle prestazioni inutilmente pericolose.


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