Curarsi con il diario: la prospettiva di James Pennebaker


Descrivere le situazioni difficili della propria vita, cercando di chiarire ciò che si pensa e si prova al riguardo, serve non solo a fare chiarezza in se stessi e a "sfogarsi", come sanno molte persone che tengono un diario, ma può anche migliorare lo stato generale di salute, favorire l'efficienza personale e modificare in senso positivo gli atteggiamenti e le relazioni interpersonali. James Pennebaker ha inaugurato un filone di studi mirati a chiarire gli effetti della scrittura espressiva e i meccanismi psicologici e psicofisiologici che si attivano traducendo in parole traumi ed esperienze stressanti. Qui vengono descritti i metodi di studio applicati e i risultati conseguiti.



In questo articolo intendo presentare le principali acquisizioni del percorso di ricerca di James Pennebaker, professore di psicologia presso l’Università del Texas, ad Austin. Pennebaker studia da circa vent’anni una problematica che interessa scrittori, pedagogisti, psicologi, linguisti e potenzialmente ognuno di noi: perché scrivere può far bene? 


Riflettendo di tanto in tanto per iscritto su situazioni ambigue ed emotivamente coinvolgenti che mi capita di vivere, ho constatato che scrivere mi aiuta in molti sensi; per esempio, mi facilita nella chiarificazione e nella soluzione di problemi di ogni sorta; aumenta le mie capacità cognitive: sono più attento e ricordo meglio; mi fa essere più spontaneo e presente nelle situazioni sociali, più in sintonia con gli altri e disponibile a interagire senza copioni. Inoltre mi aiuta ad accettare serenamente le mie reazioni cognitive ed emozionali alle situazioni sociali. 

Si trova traccia di osservazioni analoghe in una quantità sterminata di romanzi, poesie, diari, saggi e manuali e altri testi di tutte le epoche, perlomeno da Platone in poi. E da qualche tempo in Italia la scrittura autobiografica viene proposta come metodo di autoconoscenza, autoterapia, educazione degli adulti e promozione dell’apprendimento (vedi per es., Cambi, 2002; Demetrio, 1996; 2003; Farello e Bianchi, 2001; Progoff, 2000).


Avrebbe senso compilare un elenco dei benefici della scrittura? E che aspetto avrebbe tale elenco? Quali forme di scrittura possono essere benefiche? Come possiamo definire le forme  della scrittura; in altre parole, esistono delle variabili testuali psicologicamente rilevanti per classificare i testi a seconda degli effetti che si producono nella loro stesura? A chi fa bene scrivere? E come si possono spiegare i vari benefici osservati introspettivamente? Queste domande affascinanti hanno tutte a che fare con la traduzione in parole di un qualche sentire interiore; ma cos’è questo “sentire”? E avrebbe senso sostenere che le parole traducono quel sentire o piuttosto il testo è qualcosa di autonomo che si crea nel processo stesso della scrittura? Come si vede da queste prime domande, lo studio dei benefici della scrittura è un ambito di interesse che porta rapidamente al centro di alcuni problemi fondamentali della psicologia, della filosofia della mente e del linguaggio e della linguistica. 


James Pennebaker ha studiato sperimentalmente, con acume e creatività, alcuni di questi problemi. In particolare ha analizzato i benefici quantificabili derivanti dalla stesura di testi autobiografici centrati su esperienze stressanti. Se oggi la psicologia sperimentale è in grado di dire qualcosa a proposito dei benefici della scrittura e dei processi emozionali, cognitivi, comportamentali e sociali che si attivano con lo scrivere, è in gran parte grazie al lavoro condotto da Pennebaker e colleghi. Infatti l’autore ha cercato una risposta a queste domande trovandosi in pochi anni al centro di un fecondo filone di studi rigorosi, intelligenti e affascinanti. Lungo questo percorso ha riconosciuto le potenzialità di alcuni nuovi strumenti tecnologici e le ha messe a frutto per studiare, in modo processuale e dinamico, i benefici personali ottenuti grazie alla scrittura e riscontrabili anche nel contesto dei dialoghi e delle interazioni naturali. Così, recentemente, il suo campo di interesse si è esteso all’uso del linguaggio in contesti naturali e alla ricerca delle qualità del linguaggio che possono essere correlate allo stato di salute individuale, ai traumi personali e collettivi, alla personalità e ad altre variabili studiate da psicologi sociali e della personalità.



Il paradigma della scrittura espressiva


Gli studi di Pennebaker sui benefici della scrittura, come spiega lui stesso (Pennebaker, 1997a), cominciano nel 1983 con la tesi di master della sua allieva Sandra Beall. Mentre Pennebaker all’epoca era interessato al rapporto fra scrittura e salute, la Beall era curiosa di conoscere i possibili benefici psicologici derivanti dell’espressione delle emozioni. Decisero quindi di condurre un esperimento che avrebbe soddisfatto gli interessi di entrambi: avrebbero chiesto a un gruppo di soggetti volontari - studenti universitari - di scrivere o di alcune loro esperienze traumatiche o di argomenti privi di rilevanza personale. Inoltre i soggetti del primo gruppo avrebbero scritto dei loro traumi in uno dei tre modi seguenti:


1. limitandosi a esprimere le loro emozioni durante la sessione di scrittura;

2. limitandosi a trattare i traumi nei loro aspetti fattuali, concreti;

3. trattando i fatti ed esprimendo le emozioni provate nell’affrontare i traumi.


Con il permesso dei soggetti, i ricercatori avrebbero valutato il loro stato di salute raccogliendo e confrontando le informazioni sul numero di visite per cure mediche, effettuate presso l’ambulatorio dell'università riservato agli studenti, nei mesi precedenti e successivi all’esperimento.


I volontari vennero reclutati nei corsi introduttivi di psicologia in cambio di crediti. Poiché si trattava del primo studio di questo genere, avvertirono gli studenti che, se avessero partecipato, gli sarebbe potuto succedere di dover trattare per iscritto argomenti estremamente personali. Inoltre, ogni giorno, per tutta la durata dello studio, fu ricordato loro che potevano ritirarsi in qualsiasi momento, senza perdere i crediti promessi. Dei quarantasei studenti che presero parte all’esperimento non se ne ritirò nessuno. Di fatto, soltanto due persone non si presentarono uno dei quattro giorni di scrittura.


Ognuno si recò in laboratorio da solo, e lì incontrò la Beall. Nell’incontro iniziale, la studentessa spiegò ai volontari che avrebbero dovuto scrivere ininterrottamente per quindici minuti, per quattro giorni consecutivi, da soli all’interno di uno stanzino dello stabile di psicologia. Poiché era essenziale che tutto restasse anonimo e confidenziale, ai partecipanti fu chiesto di segnare sui questionari e sui loro scritti dei numeri di codice anziché nome e cognome. In effetti, fu detto loro che, se lo desideravano, potevano anche tenersi i loro scritti, senza consegnarli. Dopo avere risposto a tutte le domande, la Beall assegnò casualmente i partecipanti a una delle quattro condizioni di scrittura. In altre parole, ognuno di loro ebbe le stesse probabilità degli altri di dovere trattare per iscritto uno dei quattro argomenti prestabiliti. 


Il testo delle consegne utilizzate con chi avrebbe dovuto trattare per iscritto i pensieri e gli stati d’animo relativi a un trauma è il seguente (Pennebaker e Beall, 1986), e negli anni successivi venne poi riutilizzato sostanzialmente uguale in decine di altri esperimenti: 


Voglio che Lei, una volta chiusa la porta dello stanzino in cui verrà accompagnato, scriva continuamente dell’esperienza più sconvolgente o traumatica di tutta la sua vita. Non si preoccupi della grammatica, dell’ortografia e della struttura del periodo. Voglio che nel suo testo Lei esamini i suoi stati d’animo e i suoi pensieri più profondi in merito a tale esperienza. Può scrivere di qualunque argomento. Ma qualunque esso sia, dovrebbe trattarsi di qualcosa che l’ha colpita molto profondamente. L’ideale sarebbe se scegliesse qualcosa di cui non ha parlato con nessuno nei particolari. Ad ogni modo, è essenziale che Lei si lasci andare ed entri in contatto con quelle sue emozioni e con quei suoi pensieri più profondi. In altre parole, scriva che cosa è successo, come allora ha vissuto l’episodio e che cosa prova ora al riguardo. Infine, può scrivere di traumi diversi nel corso di ogni sessione, oppure sempre dello stesso per tutto lo studio. Ad ogni sessione, la scelta del trauma di cui scrivere spetta soltanto a lei.


Le persone assegnate alla condizione in cui si doveva scrivere soltanto delle emozioni connesse ai traumi ricevettero istruzioni identiche, tranne che per un aspetto: ebbero la consegna specifica di non menzionare il trauma. Dovevano invece scrivere come si sentirono in quella circostanza traumatica e come si sentivano attualmente. I volontari a cui fu chiesto di concentrarsi sui fatti, invece, dovettero semplicemente descrivere con cura i loro traumi, senza fare riferimento alle loro emozioni.


Infine, ai soggetti di un gruppo di controllo, fu chiesto di scrivere, in ogni sessione, di argomenti superficiali o irrilevanti. Per esempio, descrivere nei particolari cose come la stanza dello studentato in cui i soggetti alloggiavano oppure le scarpe che indossavano. Il gruppo di controllo servì a valutare quale fosse l’effetto sulla salute del puro e semplice fatto di scrivere nel contesto di un esperimento. 


Tutti gli studenti quindi, come si è detto, scrissero per quindici minuti al giorno per quattro giorni consecutivi. L’ultimo giorno, dopo la sessione di scrittura, la Beall e Pennebaker parlarono a lungo con i partecipanti delle loro esperienze e sensazioni riguardo all’esperimento. Infine, quattro mesi dopo, i partecipanti compilarono un questionario che misurava la loro percezione dell’esperimento a distanza di tempo.


Per gli studenti, l’effetto immediato dello studio fu molto più forte di quanto i ricercatori non avrebbero mai immaginato. Molti di loro piansero mentre scrivevano dei loro traumi. Molti riferirono di avere fatto sogni e pensieri continui, durante i quattro giorni dello studio, sugli argomenti trattati per iscritto. La cosa più significativa, tuttavia, furono i testi: uno dopo l’altro, rivelarono gli stati d’animo più profondi e i lati più intimi dei loro autori. In molte storie vennero rivelate gravi tragedie umane. 


I ricercatori erano interessati innanzitutto ai cambiamenti di salute fisica avvenuti nel corso dell’anno scolastico. Inoltre volevano scoprire in che modo l'esperimento avesse influito sull’umore dei partecipanti. Poiché dopo ogni periodo di scrittura i soggetti avevano compilato delle checklist, non appena terminò lo studio fu possibile valutare i cambiamenti di umore. 


Emerse che, subito dopo avere descritto le loro esperienze traumatiche, i soggetti si sentivano malissimo. Si sentirono molto peggio dopo avere scritto di traumi che non dopo avere scritto di argomenti superficiali. Questi effetti furono più pronunciati nelle persone a cui era stato chiesto di sondare le proprie emozioni mentre descrivevano i loro traumi.  


Circa sei mesi più tardi, l’ambulatorio per gli studenti fu in grado di fornire i dati sul numero di visite per cure mediche che ogni studente aveva richiesto nei due mesi e mezzo prima e nei cinque mesi e mezzo dopo l’esperimento. Dopo lo studio, le persone che avevano scritto dei loro sentimenti e pensieri più profondi riguardo a un trauma avevano avuto, rispetto agli altri gruppi, un calo impressionante nel numero di visite per cure mediche. Nei mesi prima dell’esperimento, i soggetti dei diversi gruppi si erano rivolti all’ambulatorio, per le loro malattie, con la stessa frequenza. Dopo l’esperimento, tuttavia, la persona media che aveva scritto dei suoi pensieri e sentimenti più profondi si era rivolta all’ambulatorio meno di 0,5 volte – un calo del 50% nella frequenza mensile delle visite. Chi aveva scritto soltanto delle emozioni relative a un trauma o degli aspetti concreti dell’episodio o di argomenti superficiali si era rivolto all’ambulatorio mediamente quasi 1,5 volte. 


I volontari avevano compilato anche altri questionari quattro mesi dopo l’esperimento; praticamente tutte le informazioni emerse da quei questionari corroborarono i dati forniti dall’ambulatorio. Il fatto di scrivere dei pensieri e dei sentimenti più profondi relativi ai propri traumi aveva indotto un miglioramento dell’umore, un atteggiamento più positivo e una salute fisica migliore


Questi risultati entusiasmarono Pennebaker che volle verificarne il prima possibile l’attendibilità. Scrivere dei propri traumi influisce davvero sulla salute fisica? O influisce soltanto sulla decisione di rivolgersi all’ambulatorio per gli studenti? O, peggio ancora, i risultati erano dovuti soltanto al caso? 


Con la collaborazione della psicologa clinica Janice K. Kiecolt-Glaser e dell’immunologo Ronald Glaser, Pennebaker ebbe presto la conferma che cercava (Pennebaker, Kiecolt-Glaser e Glaser, 1988). Organizzò un esperimento simile al primo studio sulla confessione. Cinquanta studenti scrissero per venti minuti al giorno, per quattro giorni consecutivi. Metà descrisse i pensieri e i sentimenti più profondi riguardo a un trauma. Gli altri venticinque ricevettero la consegna di scrivere di argomenti banali. Ma a differenza del primo studio sulla confessione, questa volta gli studenti subirono tre prelievi di sangue: uno il giorno prima di scrivere, uno dopo l’ultima sessione di scrittura e, un’ultima volta, sei settimane dopo.


Anche questa volta i volontari si aprirono completamente nei loro scritti. Le tragedie rivelate furono analoghe a quelle del primo esperimento. Di nuovo, ogni giorno le persone che scrissero dei loro traumi riferirono di sentirsi più tristi e più turbate rispetto a quelle che scrissero di argomenti superficiali. Le persone che avevano scritto dei pensieri e dei sentimenti più profondi relativi alle loro esperienze traumatiche evidenziarono un funzionamento immunitario più intenso (aumento dei linfociti-T in vitro, in presenza di mitogeni) rispetto a chi aveva trattato argomenti superficiali. Anche se questo effetto risultò più accentuato l’ultimo giorno di scrittura, esso tendenzialmente persistette sei settimane dopo lo studio. Inoltre, nelle persone che avevano scritto dei propri traumi, le visite per cure mediche presso l’ambulatorio calarono e risultarono inferiori rispetto a quelle di chi aveva scritto di argomenti di poco conto.


Presto Pennebaker riuscì a dimostrare che i benefici della scrittura espressiva potevano non riguardare soltanto la salute. Il primo studio di questo tipo riguardò una cinquantina di uomini ex impiegati che alcuni mesi prima erano stati licenziati in giornata, senza alcun preavviso. Come era avvenuto negli altri studi, gli autori chiesero a metà degli uomini di scrivere i pensieri e i sentimenti più profondi riguardo al licenziamento, per mezz’ora al giorno per cinque giorni consecutivi, e all'altra metà di spiegare come usavano il loro tempo. I soggetti di un gruppo di controllo, composto da ventidue uomini, non scrissero niente. Gli uomini che avevano ricevuto la consegna di descrivere pensieri e sentimenti furono estremamente aperti e sinceri nei loro scritti. Descrissero l’umiliazione e il risentimento per la perdita del lavoro e altri problemi più intimi – riguardanti difficoltà coniugali, malattia e morte, denaro e paura per il futuro. A differenza degli studenti di college, questi uomini riferirono di sentirsi meglio ogni giorno subito dopo avere scritto.


Nell’arco di tre mesi, il 27% dei soggetti del gruppo sperimentale riuscì a procurarsi un lavoro, contro il 5% degli altri due gruppi. Alcuni mesi dopo l'esperimento, il 53% di coloro che avevano descritto pensieri e sentimenti aveva trovato un lavoro, contro il 18% dei soggetti assegnati alle altre due condizioni. Un aspetto dello studio particolarmente sorprendente è che gli uomini di tutte e tre le condizioni avevano avuto esattamente lo stesso numero di colloqui di lavoro. L’unica differenza fu che a quelli che avevano scritto i loro sentimenti venne offerto un lavoro.



Gli effetti della “scrittura espressiva”: panoramica dei risultati di ricerche sperimentali e correlazionali


Un’osservazione costante negli studi che hanno utilizzato il paradigma della scrittura espressiva è che il fatto di scrivere o parlare di argomenti emotivi influisce sul modo in cui le persone pensano al trauma, alle loro emozioni e a se stesse. Per esempio, quando i partecipanti vengono intervistati nei mesi successivi all'esperimento di scrittura, dicono regolarmente frasi come “l’esperimento ha cambiato il modo in cui penso all’evento [o agli eventi]” o “mi ha fatto capire perché mi sono sentito in quel modo” (Pennebaker e Graybeal, 2001).


Nel corso degli ultimi quindici anni, oltre due dozzine di studi condotti in vari laboratori sparsi per il mondo hanno confermato e ampliato i risultati dei primi esperimenti. Nella tabella 1 vengono sintetizzati gli indicatori di esito presi in esame negli studi di questo genere (e nelle loro varianti, come quella consistente nel parare al microfono di un registratore anziché scrivere) condotti fino al 1997.


Tabella 1. Effetti dell’espressione scritta o orale su vari parametri di esito. (Sono stati considerati soltanto gli studi pubblicati o presentati per la pubblicazione. Vari studi hanno riscontrato effetti condizionati a una seconda variabile (per es., un argomento stressante). Tabella tratta da Pennebaker, 1997b a cui rimando per la relativa bibliografia.


Visite mediche (confronto fra prima e dopo la scrittura)

Riduzioni che durano 2 mesi dopo la scrittura

Cameron & Nicholls (1996); Greenberg & Stone (1992);

Greenberg, Stone, & Wortman (1996); Krantz & Pennebaker

(1996); Pennebaker & Francis (1996); Pennebaker, Kiecolt-Glaser,

& Glaser (1988); Richards (1988); Richards, Pennebaker e Beall

(1996)


Riduzioni che durano 6 mesi dopo la scrittura

Francis & Pennebaker (1992); Pennebaker & Beall (1986);

Pennebaker; Colder & Sharp (1990)


Riduzioni che durano 1,4 anni dopo la scrittura

Pennebaker, Barger, & Tiebout (1989)

Indicatori fisiologici (misure immunologiche e sierologiche a lungo termine)

Blastogenesi (risposta delle cellule t-helper alla fitoemoagglutinina)

Pennebaker et al. (1988)



Titolo anticorpale per il virus Epstein-Barr 

Esterling, Antoni, Fletcher, Margulies, & Schneidermann (1994);

Lutgendorf, Antoni, Kumar, & Schneidermann (1994)

Livelli di anticorpi per l’epatite B


Petrie, Booth, Pennebaker, Davison, & Thomas (1995)

Livello di attività delle cellule natural killer

Christensen et al. (1996)

Livelli di CD-4 (linfociti-t)

Booth, Petrie, & Pennebaker (1992)

Livelli di enzimi epatici (SGOT)

Francis et al. (1992)

Indicatori fisiologici (cambiamenti immediati nell’attività autonomica e muscolare)

Conduttanza cutanea e/o frequenza cardiaca 

Dominguez, Silva, Martinez, Montes, & Gutierrez (1995); Hughes,

Uhlmann & Pennebaker (1994); Pennebaker, Hughes, & O'Heeron

(1987); Petrie et al. (1995)

Attività del corrugatore


Pennebaker et al. (1987); Yogo, Smith, Pennebaker, & Rimé (1996)

Indicatori comportamentali

Media dei voti scolastici 

Cameron et al. (1996); Krantz et al. (1996); Pennebaker et al. (1990); Pennebaker & Francis (1996)

Reimpiego in seguito a perdita del lavoro 

Spera, Buhrfeind, & Pennebaker (1994)

Assenteismo lavorativo

Francis et al. (1992)

Self-report

Sintomi fisici 




Greenberg & Stone (1992); Pennebaker & Beall (1986); Richards et al. (1996); non hanno riscontrato effetti: Pennebaker et al. (1990); Pennebaker et al. (1988); Petrie et al. (1995)

Distress, disturbi emozionali o depressione 


Greenberg et al. (1992); Greenberg et al. (1996); Murray & Segal (1994); Rimé (1995); Spera et al. (1994); Schoutrop et al. (1996);

non hanno riscontrato effetti: Pennebaker & Beall (1986); Pennebaker et al. (1988); Pennebaker & Francis (1996); Petrie et al. (1995)



Nelle repliche e nelle varianti di questi studi iniziali sono state variate di volta in volta una o più dimensioni procedurali:


  • Il tema dell’autoespressione
  • La modalità di autoespressione: scritta vs. orale
  • La durata delle sessioni di autoespressione
  • La durata dell’intervallo tra le sessioni
  • Le caratteristiche dei soggetti (età, sesso, etnia, particolare circostanza di vita vissuta al momento dello studio ecc.) e in particolare la presenza di una patologia medica o di un disturbo psicopatologico. 
  • Tipo di strumenti di misura utilizzati (self-report, esami di laboratorio, indicatori comportamentali, ecc.) e il tipo di variabili misurate 
  • I momenti delle misurazioni degli esiti e la lunghezza dei follow-up.


Questi studi sono stati oggetto di una meta-analisi (Smyth, 1998), una rassegna molto recente (Sloan e Marx, 2004) e di vari articoli riepilogativi. Nel 1988 Smyth ha condotto una meta-analisi su 13 studi che avevano come oggetto il paradigma della scrittura espressiva. I risultati hanno rivelato una misura dell’effetto media, ponderata attraverso tutti gli studi e gli esiti, pari a d = 0,47 (r = 0,23, p < 0,0001); la procedura è quindi associata a risultati positivi di media entità. Smyth ha riscontrato inoltre che due variabili moderano la misura dell’effetto complessiva: 


  1. la quantità di tempo trascorsa fra le sessioni di scrittura, che è correlata positivamente con l'entità degli effetti positivi;
  2. il sesso (i maschi tendono a ottenere esiti migliori rispetto alle femmine).


Tutti gli studi inclusi nella meta-analisi tranne uno hanno esaminato studenti di college scelti casualmente. Dopo la meta-analisi di Smyth sono stati pubblicati altri quattordici studi sull’espressione delle emozioni per iscritto.


Nella loro rassegna, invece, Sloan e Marx (2004) hanno considerato 27 studi pubblicati, di cui otto condotti da Pennebaker e collaboratori, in cui si esaminava il paradigma della scrittura espressiva di Pennebaker e Beall (1986) sopra descritto. I partecipanti erano: studenti di college in buona salute scelti casualmente, vittime di violenza sessuale, malati di cancro, persone con disturbo di stress post-traumatico, persone in attesa di sottoporsi a una prova di ammissione universitaria, detenuti, studenti che hanno vissuto un trauma, malati di artrite o asma, disoccupati e persone in lutto.


Grazie a questi lavori di sintesi, cominciamo ad avere qualche informazione sui correlati delle dimensioni di variabilità degli studi, benché siano stati condotti pochissimi esperimenti ad hoc e sia poco sensato accorpare i risultati di studi metodologicamente eterogenei. 



Il tema dell’autoespressione


Vari temi di scrittura producono effetti comparabili sul piano dei benefici per la salute (Pennebaker e Seagal, 1999). 


Nei primi studi si chiedeva ai volontari di scrivere dei loro traumi, ma in esperimenti più recenti è stato chiesto a studenti dei primi anni di università di scrivere i loro pensieri e stati d’animo più profondi in relazione all’arrivo al college o, nel caso degli ingegneri disoccupati, in relazione all’esperienza di licenziamento (Spera, Buhrfeind e Pennebaker, 1994). 


Una variante tematica particolarmente interessante è quella usata in uno studio condotto recentemente da Greenberg, Wortman e Stone (1996), in cui si chiese ad alcuni studenti già traumatizzati di scrivere di un trauma immaginario anziché di qualcosa che avessero vissuto direttamente. I risultati indicarono che il fatto di scrivere di traumi immaginari come se fossero stati vissuti personalmente produceva benefici per la salute analoghi a quelli ottenuti da un altro gruppo di persone che scrissero dei loro traumi personali. L’aspetto centrale di tutti questi studi comunque è che le persone vengono incoraggiate a esplorare le loro emozioni e i loro pensieri, a prescindere dal contenuto.


In qualche misura, le istruzioni preparate da Pennebaker e Beall (1986; vedi sopra) permettono ai partecipanti di scegliere di cosa scrivere. Tuttavia in alcuni studi i ricercatori hanno indotto i partecipanti a scrivere di uno specifico argomento, come l’adattamento al college, una prova universitaria imminente, abusi sessuali vissuti nell’infanzia, il recente decesso del coniuge o una malattia fisica in atto. Tutti gli studi in cui è stato chiesto ai partecipanti di trattare per iscritto di una fonte di stress presente al momento, come il passaggio al college, hanno riportato risultati positivi (Sloan e Marx, 2004). Nel caso di studenti all’inizio del college, scrivere di argomenti emotivi connessi all’arrivo al college influisce sui voti più del fatto di scrivere di esperienze traumatiche (Pennebaker e Beall, 1986; Pennebaker, Colder e Sharp, 1990).


In quattro studi, alcuni partecipanti hanno ricevuto la consegna di scrivere degli aspetti positivi di un evento traumatico o stressante. In un caso i soggetti assegnati a questa condizione sperimentale hanno ottenuto meno benefici di quelli con la consegna tradizionale; in due casi in entrambe le condizioni ci sono stati benefici rispetto a un gruppo di controllo; in un caso non ci sono stati effetti benefici né in una condizione né nell’altra (Sloan e Marx, 2004).



La modalità dell'autoespressione: scritta vs. orale


Benché la maggior parte degli esperimenti si siano concentrati principalmente sulla scrittura, qualcuno ha confrontato la scrittura espressiva con una consegna analoga in cui tuttavia i partecipanti dovevano parlare davanti a un magnetofono. In generale, le due modalità producono gli stessi effetti


Ulteriori esperimenti condotti da Edwards Murray e colleghi all’Università di Miami suggeriscono che scrivere delle proprie esperienze traumatiche produce effetti simili a quelli che si ottengono parlando con uno psicoterapeuta – perlomeno in un campione di persone psicologicamente sane (Pennebaker e Seagal, 1999).



Il destinatario


Non si riscontrano differenze fra chi consegna il testo allo sperimentatore e chi non lo fa. Nella maggior parte degli studi, i partecipanti hanno scritto i loro testi pensando che gli sperimentatori li avrebbero letti. In altri esperimenti invece i partecipanti potevano non consegnare ciò che avevano scritto. Nello studio per una tesi di master alcuni studenti hanno scritto su una lavagna magica per bambini e il testo è stato cancellato sollevando il foglio di plastica dalla tavoletta (Pennebaker e Seagal, 1999). 



Numero e durata delle sessioni di autoespressione


Benché gli studi originari richiedessero ai partecipanti di scrivere quindici minuti al giorno per quattro giorni consecutivi, in studi successivi il numero di sessioni è variato da uno a sette giorni e da quindici a quarantacinque minuti per sessione (Sloan e Marx, 2004). Dalla meta-analisi di Smyth emerge che il numero e la durata delle sessioni è ininfluente sulla misura dell’effetto complessiva.



La durata dell’intervallo tra le sessioni


Come si è detto sopra, dalla meta-analisi di Smyth (1998) è emerso che la quantità di tempo trascorsa fra le sessioni di scrittura modera la misura dell’effetto; nella fattispecie, intervalli di una settimana hanno prodotto una misura dell’effetto complessiva superiore rispetto a intervalli di un giorno.



Le caratteristiche personali dei soggetti 


I benefici del paradigma della scrittura espressiva si riscontrano indifferentemente in un ventaglio di popolazioni diverse. Effetti positivi sulla salute e sul comportamento sono stati riscontrati in detenuti in carceri di massima sicurezza, studenti di medicina, vittime di crimini in condizione di sofferenza, uomini licenziati da poco, donne che hanno partorito recentemente il primo figlio (Pennebaker e Seagall, 1999). Tali effetti si riscontrano in tutte le classi sociali e nei principali gruppi razziali/etnici negli Stati Uniti, nonché in campioni di persone di Città del Messico, neozelandesi, belgi francofoni e olandesi. 


Personalità. Sembra che alcune persone tendano a trarre più benefici di altre: i maschi e le persone con alti punteggi nei tratti di ostilità o di alessitimia. Altri studi suggeriscono che il paradigma della scrittura potrebbe essere più efficace per le persone che hanno sperimentato esperienze particolarmente traumatiche di cui è difficile parlare con gli altri (Pennebaker e Graybeal, 2001).


Non esistono indizi forti del fatto che le persone con un tipo particolare di personalità possano trarre maggiori benefici. Secondo un’analisi condotta recentemente da Smyth (1998) su molti studi di scrittura, come si è detto, gli uomini possono trarre qualche beneficio in più delle donne. Questo effetto tuttavia dovrebbe essere sottoposto a ulteriori verifiche. Benché le misure tradizionali di nevroticismo, propensione alla depressione ed estroversione non siano correlate ai benefici della scrittura, in un esperimento di Christensen e Smith (1993), è emerso che le persone particolarmente ostili e sospettose hanno ricavato dalla scrittura più benefici di quelle poco ostili e sospettose.


Stigma sociale. Uno studio recente (descritto in Seagal e Pennebaker, 1997) ha rilevato che nei membri di gruppi stigmatizzati, il fatto di scrivere della propria appartenenza al gruppo modifica il livello della propria autostima collettiva (cioè il senso di valore che una persona ricava dall’appartenenza al gruppo). 


Le persone che avevano un’identità visibile stigmatizzata (per es., i latino-americani, le persone sovrappeso) hanno ricavato più benefici scrivendo della loro appartenenza alla comunità generale che non della loro appartenenza al sottogruppo di persone che condividono la stessa identità. Per contro, quelle con una identità non visibile stigmatizzata (per es., gay, lesbiche ed ebrei) hanno ricavato più benefici quando hanno scritto della loro appartenenza al gruppo stigmatizzato. Rispetto alle persone assegnate ad altre due condizioni di scrittura (quelle con una identità visibile stigmatizzata che scrissero della loro appartenenza a un gruppo stigmatizzato e quelle con un’identità non visibile stigmatizzata che scrissero della loro appartenenza alla comunità generale) e rispetto al gruppo di controllo, le persone di questi due gruppi faticarono di più a scrivere nei tre giorni dell'esperimento, ma riferirono che il fatto di scrivere aveva avuto effetti positivi più duraturi, e si sentirono meno tristi e depresse un mese dopo (Seagal e Pennebaker, 1997). 

Psicopatologia. Secondo alcuni dati, la scrittura in sé e per sé può non funzionare sempre con persone che hanno probabilmente processi cognitivi disturbati o una depressione relativamente grave. Per esempio, uno studio su ampia scala condotto in Olanda su persone anziane che hanno subito recentemente un lutto non ha evidenziato benefici (vedi Stroebe e Stroebe, 1996). Analogamente, in uno studio condotto in Israele con un gruppo di quattordici persone affette da Disturbo di stress post-traumatico/PTSD, i soggetti assegnati alla condizione sperimentale, che prevedeva di scrivere e parlare liberamente dei loro traumi, sono leggermente peggiorati rispetto a quelli del gruppo di controllo. Secondo gli autori dello studio, probabilmente la scrittura non aiuta le persone con PTSD se mancano attività di sviluppo delle abilità cognitive e/o di fronteggiamento (Gidron et al., 1996). Inoltre, le persone con PTSD grave possono non essere in grado di organizzare cognitivamente le esperienze traumatiche nonostante la ruminazione continua e le reazioni emotive ai pensieri dei traumi precipitanti. 



Tipo di strumenti di misura utilizzati (self-report, esami di laboratorio, indicatori comportamentali, ecc.) e variabili misurate 


La scrittura non influisce soltanto sul numero di consultazioni mediche e sui self-report relativi all'umore e ai sintomi fisici. Quattro laboratori diversi hanno riscontrato che la scrittura produce effetti positivi su alcuni marcatori ematici della funzione immunitaria. Altri studi indicano che la scrittura è associata con una riduzione del livello di dolore e del consumo di farmaci e, in un campione di studenti sottoposti a esami di livello professionale come il Graduate Record Exam, con livelli di depressione immunitaria inferiori (Pennebaker e Seagal, 1999). Altri sperimentatori hanno dimostrato che la scrittura si associa a voti scolastici più alti al college (Pennebaker e Francis, 1996; Cameron e Nicholls, 1998) e tempi più ridotti nel trovare un nuovo lavoro in ingegneri anziani licenziati (Spera et al., 1994). Vari studi hanno riscontrato anche che il fatto di scrivere o parlare di argomenti emotivamente significativi influisce positivamente sulla funzione immunitaria, favorendo la crescita delle cellule T-helper (Pennebaker, Kiecolt-Glaser e Glaser, 1988), la risposta degli anticorpi al virus di Epstein-Barr (Esterling et al., 1994) e la risposta degli anticorpi alle vaccinazioni per l’epatite B (Petrie et al., 1995).



I momenti delle misurazioni degli esiti e la lunghezza dei follow-up


Negli studi sono stati usati periodi di follow-up di varia lunghezza: da un minimo in cui l’ultima misurazione viene effettuata all’ultima sessione di scrittura, fino a un massimo di sei mesi. Nonostante i chiari effetti sulla salute e il comportamento, il fatto di scrivere delle proprie esperienze traumatiche tende a rendere più infelici e sofferenti nelle ore successive. Queste emozioni, per molti versi, possono essere considerate coerenti con le questioni con cui la persona si sta confrontando. Quando, almeno due settimane dopo lo studio, vengono somministrati ai partecipanti dei questionari, tuttavia, loro riferiscono di essere felici quanto o più dei soggetti assegnati alla condizione di controllo. Curiosamente, in persone molto stressate, come gli ingegneri licenziati, il fatto di scrivere sulla perdita del lavoro ha prodotto miglioramenti di umore immediati rispetto ai soggetti di controllo. Lo stato emozionale successivo alla scrittura dipende da come i partecipanti si sentono prima: meglio si sentono prima, peggio si sentono dopo, e viceversa (vedi Pennebaker, 1997a). 


Le persone già molto angosciate riferiscono in realtà di sentirsi meglio dopo avere scritto. In uno studio condotto da Spera, Buhrfeind e Pennebaker (1994) su un gruppo di uomini licenziati, il fatto di scrivere di questa esperienza ha ridotto la depressione e la rabbia quasi immediatamente. Quando si è già di umore abbastanza buono, tuttavia, il fatto di scrivere di esperienze angosciose tende a peggiorare lo stato d’animo.



Perché scrivere può far bene? Risultati delle ricerche empiriche sui processi psicologici e psicofisiologici attivati dalla scrittura 


Come la psicoterapia, il paradigma della scrittura produce effetti sorprendentemente ampi e replicabili. Negli ultimi anni vari laboratori hanno cercato di scoprire in che modo una procedura così semplice produca i suoi benefici. 


Oggi disponiamo di prove sufficienti per pensare che il potere della scrittura non sia dovuto alla mera espressione emotiva nel senso dello sfogo catartico o liberatorio. Già nel primo studio con il paradigma della scrittura espressiva, i partecipanti che scrissero soltanto delle loro emozioni riguardo alla loro esperienza più traumatica, senza una descrizione dell’evento stesso, non ottennero i benefici di coloro che scrissero sia dei loro pensieri che dei loro stati d’animo (Pennebaker e Beall, 1986). Inoltre, le persone che dopo avere scritto affermano che la scrittura ha avuto una funzione catartica stanno invariabilmente peggio degli altri partecipanti  (Pennebaker, 1989).


Dalla letteratura sulla modificazione del comportamento sappiamo che lo stesso fatto di tenere sotto osservazione il proprio comportamento, ammettiamo, per definire una linea di base prima di un intervento, è sufficiente per indurre una certa modificazione in quel comportamento. Tuttavia, per quanto riguarda gli effetti della scrittura, secondo Pennebaker e Graybeal (2001) non è neppure necessariamente vero che il fatto di scrivere di argomenti emotivi induca le persone a adottare comportamenti più salutari, come fumare meno, mangiare meglio o fare più jogging. 


Nel 2003 Campbell e Pennebaker hanno classificato in tre categorie i vari processi di mediazione proposti per spiegare perché la scrittura espressiva produca i suoi effetti; tuttavia le categorie si sovrappongono essendo ricchissime di relazione reciproche: 


  1. L’abituazione. Le teorie di questo tipo in genere assimilano il paradigma della scrittura espressiva alle procedure di esposizione e ne spiegano gli effetti in termini di estinzione (vedi Greenberg, Wortman e Stone, 1996); 
  2. Cambiamenti nella memoria di lavoro (vedi Klein e Boals, 2001). È stato dimostrato per esempio che il fatto di scrivere riduce la frequenza e/o l’impatto di pensieri intrusivi, suggerendo che essa libera la mente dalle distrazioni (Lepore et al., 1996).
  3. Una qualche sorta di cambiamento nelle strutture cognitive (vedi per es., Pennebaker, Mayne e Francis, 1997).


È principalmente sul terzo aspetto che si è concentrato finora Pennebaker nelle sue ricerche e riflessioni. 



L’inibizione e lo stress


Inizialmente Pennebaker pensò che gli effetti benefici della scrittura espressiva fossero dovuti alla disinibizione, ovvero all’espressione di pensieri ed emozioni taciuti agli altri e in parte nascosti a se stessi. 


L’autore fa il punto sulle conoscenze in merito al rapporto fra eventi stressanti, inibizione/disinibizione e reazioni di stress e nel libro Opening up (1997a). La sua convinzione è che esistano veramente dei rischi connessi a un grado di inibizione estremo, anche se non di rilevanza straordinaria. Le persone inclini all’inibizione si troverebbero in pericolo più che altro quando sono costrette ad affrontare un trauma. 


L’inibizione attiva, secondo Pennebaker, è "lavoro fisico". Sia ha inibizione attiva quando le persone si trattengono o si frenano coscientemente o in un modo o nell'altro si sforzano di non pensare, sentire e agire. Per inibire attivamente i propri pensieri, sentimenti o comportamenti è necessario un lavoro fisiologico. 


L’inibizione produce alcuni cambiamenti biologici a breve termine e influisce sulla salute a lungo termine. Sul breve periodo si riflette in cambiamenti fisiologici immediati, per esempio con una maggiore sudorazione. Con il passare del tempo, agisce sull’organismo come uno stressor cumulativo, aumentando la probabilità di ammalarsi o di sviluppare altri problemi fisici e psicologici associati allo stress. L’inibizione attiva può essere considerata uno dei molti stressor generali che agiscono sulla mente e sul corpo. Ovviamente, più lo sforzo di inibizione è intenso, tanto maggiore è la sollecitazione dell’organismo.


L’inibizione attiva è associata anche a modificazioni del pensiero potenzialmente deleterie. Tipicamente, reprimendo pensieri e affetti importanti associati a un evento, noi non pensiamo a quel fatto in modo esplicito, approfondito e funzionale alla sua integrazione. Non parlando di un evento inibito, per esempio, di solito non lo traduciamo in parole, e questo ci impedisce di comprenderlo e di assimilarlo. Di conseguenza, le esperienze significative che vengono inibite affioreranno probabilmente sotto forma di sogni, ruminazioni mentali e altri disturbi del pensiero analoghi. 


All’opposto dell’inibizione attiva c’è il confronto. In mancanza di un termine migliore, Pennebaker utilizza la parola “confronto” per riferirsi a quello che fanno le persone che parlano e/o pensano attivamente alle esperienze significative e riconoscono le loro emozioni.  Confrontandosi psicologicamente con i traumi si superano gli effetti dell’inibizione sia sul piano cognitivo che su quello fisiologico. 


L’atto di confrontarsi direttamente con il trauma riduce il lavoro fisiologico di inibizione. Durante il confronto, lo stress biologico dell’inibizione si riduce immediatamente. Nel corso del tempo, se le persone continuano a confrontarsi con il trauma e quindi cercano di risolverlo, ci sarà un abbassamento del livello generale di stress nell’organismo. Il confronto con il trauma aiuta le persone a comprendere, e in definitiva ad assimilare, l’evento. Scrivendo o parlando delle esperienze precedentemente inibite, le persone traducono l’evento in linguaggio. Una volta tradotta in parole, l’esperienza può essere meglio compresa e superata (Pennebaker, 1997a).


Con il passare del tempo, Pennebaker è andato convincendosi che i benefici della scrittura espressiva siano da ricondurre non soltanto all’espressione verbale di pensieri e stati d’animo ma più in particolare alla loro organizzazione in forma di storie. Lo studio dei testi raccolti nel corso delle prove di scrittura espressiva ha dato corpo e sostanza a questa idea.



Le caratteristiche del testo come predittori dei benefici della scrittura


Dopo avere ottenuto le prime conferme sull’utilità della scrittura espressiva, Pennebaker e colleghi si sono chiesti se i testi delle persone a cui scrivere ha fatto bene fossero per qualche aspetto differenti rispetto a quelli delle persone a cui il fatto di scrivere non arrecava alcun beneficio. 



L’analisi del  contenuto testuale con il LIWC 


Un dato emerso con regolarità è che le persone che hanno scritto di argomenti emotivamente pregnanti riferiscono che l’esperimento le ha fatte pensare diversamente alle loro esperienze (Pennebaker, 1989). Questo cambiamento nel pensiero trova un corrispettivo nel modo in cui le persone scrivono? In tal caso, qual è il metodo migliore per analizzare i campioni di scrittura per distinguere la scrittura salutare da quella non salutare?


Dopo avere ricevuto una prima conferma di un’ipotesi iniziale, secondo cui poteva essere discriminante il contenuto dei testi, Pennebaker e colleghi predisposero il LIWC, un programma di analisi dei testi che serve a contare la percentuale di parole in un file di testo appartenenti a una delle oltre settanta dimensioni linguistiche o psicologicamente rilevanti (Pennebaker, Francis e Booth, 2001). Per qualsiasi componimento, poesia, libro o altro campione di linguaggio verbale il LIWC riporta la percentuale di parole di carattere “emozionale”, “cognitivo”, “sociale” e via dicendo dopo avere cercato in un determinato file di testo oltre duemila tipi di parole e radici. Le parole di ricerca sono state precedentemente categorizzate da giudici indipendenti sulla base, come si è detto, di oltre settanta dimensioni linguistiche, fra cui figurano le categorie linguistiche classiche (per es., articoli, preposizioni, pronomi), i processi psicologici (per es., categorie che si riferiscono alle emozioni positive e negative, ai processi cognitivi - come l’uso di parole che si riferiscono alla causalità -, riferimenti alle discrepanze presenti nel Sé), i riferimenti a concetti relativistici (per es., riferiti al tempo, ai tempi verbali, al moto, allo spazio) e le dimensioni di contenuto tradizionali (per es., il sesso, la morte, il lavoro) (Pennebaker e Stone, 2003). Un campione di testo può quindi essere definito dalla percentuale di parole che in esso contengono termini emozionali negativi o positivi, articoli, preposizioni, pronomi, parole cognitive, ecc. Il LIWC può analizzare migliaia di file di testo alla volta e fornire un’istantanea linguistica di ciascuno di essi  (Pennebaker, 2002; Pennebaker e Stone, 2003).


Con l’ausilio del LIWC Pennebaker e colleghi analizzarono tutti i testi prodotti in sei studi sulla scrittura condotti precedentemente, per valutare se fosse possibile identificare le categorie di parole usate nei testi allo scopo di predire i miglioramenti di salute. Emersero così tre fattori linguistici:


  1. Più le persone usavano vocaboli emozionali positivi, migliore risulta il loro stato di salute successivo. Alcuni esempi di vocaboli emozionali positivi sono: felice (happy), amore/amare (love), bene (good) e riso/ridere (laugh). 
  2. La presenza di un numero medio di vocaboli emozionali negativi predice miglioramenti nella salute. L’uso di una quantità molto alta o molto bassa di vocaboli emozionali negativi è correlato con uno stato di salute peggiore. Alcuni esempi di vocaboli emozionali negativi sono: arrabbiato (angry), ferito/ferire (hurt) e brutto (ugly). 
  3. Benché l’uso di vocaboli emozionali positivi e negativi risultò importante, lo fu certamente molto meno rispetto alla terza categoria di parole, quella dei vocaboli cognitivi o riguardanti il pensiero. Le due principali dimensioni cognitive riguardarono il pensiero causale (per es., parole come causa [cause], effetto [effect], ragione [reason]) e l’insight o l’autoriflessione (per es., capisco/capire [understand], mi rendo conto/rendersi conto [realize], so/sapere [know]). Curiosamente, l’aspetto importante, per quanto riguarda queste categorie, non fu il livello assoluto del loro impiego. Invece, le persone che ebbero miglioramenti nello stato di salute passarono da un impiego scarsissimo di vocaboli cognitivi il primo giorno di scrittura, a un livello molto più alto l’ultimo giorno (Pennebaker, 1997a). 


Uno studio successivo, sull’uso delle parole e l’attività immunitaria post-scrittura – come il numero di cellule T-helper - ha trovato conferme di questi effetti (Petrie, Booth e Pennebaker, 1998). Poiché il LIWC non è in grado di cogliere il senso del testo, serviranno altri studi per spiegare come mai l’uso di parole causali e di insight sia benefico. Questi studi sono in corso.


Attualmente, Pennebaker e colleghi stanno vagliando l’idea che queste parole caratterizzino le storie ben strutturate, partendo dall’assunto che sia proprio la formazione di storie ben organizzate a produrre i benefici della scrittura (vedi per es., Graybeal, Sexton e Pennebaker, 2002, uno studio che tuttavia ha dato risultati deludenti). 



La comprensione delle circostanze della vita e la costruzione di storie


È da molto tempo che la psicologia narrativa riconosce l’importanza di dare senso agli episodi della propria vita traducendoli in un formato simile a una storia. Gergen e Gergen (1988) chiamano narrazioni di sé (self-narratives) questi particolari tipi di storie che ci aiutano a spiegare gli episodi critici della nostra vita. La base per una buona narrazione di sé, secondo Gergen e Gergen, è simile ai criteri ritenuti importanti per una buona storia in generale: la presenza di un motivo principale o scopo della storia, l’inserimento di eventi importanti pertinenti con questo scopo e la disposizione degli eventi in un ordine sensato (Gergen e Gergen, 1987; Gergen e Gergen, 1988). Ognuno di noi comincia a conoscere storie e a saperne raccontare già nell’infanzia e l’acquisizione dell’abilità di stabilire nessi causali e formare storie seguendo questi principi è una tappa di sviluppo molto importante che favorisce lo sviluppo di una vita emozionale coerente (Mancuso e Sarbin, 1998). Essa è talmente importante che il fatto di padroneggiarla può avere delle conseguenze per la salute individuale.


Una convinzione piuttosto accettata nell’ambito della psicologia, scrive Pennebaker (1997a) è che gli esseri umani – come forse la maggior parte degli animali dotati di un sistema nervoso di media complessità -  cercano di conoscere il mondo circostante. Se sentono un dolore o uno strano rumore cercano di capire qual è la causa. Quando capiamo come e perché si è verificato un certo evento siamo più preparati ad affrontarlo qualora si ripresentasse. Per definizione, quindi, saremo molto più motivati a conoscere gli eventi che hanno conseguenze indesiderate o, al contrario, molto desiderate piuttosto che quelli comuni o prevedibili che non hanno una particolare pregnanza per noi. Analogamente, gli eventi con conseguenze personali cospicue e importanti verranno esaminati più di quelli relativamente banali.


Nel corso di una giornata normale esaminiamo e analizziamo costantemente il nostro mondo. Se qualcuno nell’auto dietro alla nostra ci suona mentre siamo fermi al semaforo rosso ci chiediamo: “Suona a me?”, “è diventato verde?”, “conosco questa persona?”. Appena abbiamo capito il significato di quel suono regoliamo il nostro comportamento (se è verde partiamo, se è un amico salutiamo) o torniamo al nostro mondo privato se il suono non è rivolto a noi. Non appena questo breve episodio è concluso, probabilmente lo cancelleremo dalla nostra mente per sempre.


Laddove la ricerca del significato del suono di un clacson è un processo breve e relativamente automatico, gli eventi importanti della vita sono molto più difficili da comprendere. Se la persona che amiamo ci lascia, un amico intimo muore o incontriamo una battuta d’arresto nella carriera, in genere rimuginiamo sull’evento nella nostra mente cercando ci capirne la cause e conseguenze. A complicare la questione c’è il fatto che gli eventi importanti della nostra si compongono di molti episodi ed esperienze. Se la persona amata se n’è andata, ciò si ripercuoterà sui rapporti con gli altri, sulla disponibilità finanziaria, sulla nostra idea di noi stessi e anche su come mangiamo, dormiamo, parliamo quotidianamente e sulle nostre abitudini sessuali. Nel tentativo di comprendere questa esperienza, cercheremo naturalmente di chiederci perché ciò sia accaduto e come possiamo affrontarlo. Nella misura in cui l’evento resta irrisolto, ci penseremo, lo sogneremo, ci ossessioneremo e ne parleremo per giorni, settimane o anni.


Che cosa esattamente si debba intendere per significato e comprensione è molto più oscuro. Filosofi, psicologi, poeti e narratori hanno osservato che lo stesso evento può avere significati completamente differenti per persone diverse. Dopo la morte di un amico molto caro, qualcuno può trovare un senso nella religione (“Dio ha un piano”), altri nella ricerca delle cause del decesso (“Fumava, cosa c’era da aspettarsi?”), e altri ancora nell’esplorazione delle implicazioni per la propria vita (“Lui avrebbe voluto che io vivessi diversamente”). Le analisi semplici basate su una sola spiegazione causale possono essere utili a spiegare qualche aspetto del decesso ma probabilmente non saranno utili per tutti gli aspetti. Possiamo avere un spiegazione chiara del perché l’amico sia morto, ma resterebbe ancora da affrontare un cambiamento nella nostra rete di amicizie, delle nostre abitudini quotidiane di conservazione con gli amici, ecc. 


La costruzione di un racconto permette di collegare tutti i cambiamenti intervenuti nella nostra vita in una storia ampia e completa. Nella stessa storia cioè possiamo parlare sia della causa dell’evento che delle sue molteplici implicazioni. Proprio come in una storia, ci possono essere temi principali, intrecci e sotto intrecci – molti dei quali organizzati logicamente e/o gerarchicamente. Attraverso questo processo, le molte facce del presunto evento singolo vengono organizzate in un tutto più coerente. 


Attingendo dalla ricerca sulla conversazione e il linguaggio, Leslie Clark (1993) osserva che quando si racconta una storia a un’altra persona il discorso deve essere coerente. La coerenza linguistica presuppone diverse caratteristiche, fra cui una struttura, l’uso di spiegazioni causali, la ripetizione di temi e la considerazione della prospettiva dell’ascoltatore. Clark sottolinea che le conversazioni virtualmente esigono la comunicazione di storie o narrazioni che richiedono una sequenza ordinata di eventi. 


Quando un avvenimento complesso viene organizzato nel formato di una storia, esso viene semplificato e la mente non ha più bisogno di attivarsi per conferirgli una struttura e un significato. Quando la storia viene raccontata diverse volte, si abbrevia e alcuni dei dettagli più minuti vengono gradualmente livellati. Le informazioni rievocate nella storia sono quelle congruenti con la storia. Laddove i dati (l’esperienza grezza) vengono inizialmente usati per creare la storia, una volta che questa si è fissata nella mente della persona vengono rievocati solo quelli pertinenti con la storia. Inoltre, con il passare del tempo, abbiamo la tendenza a colmare le lacune della nostra storia in modo da renderla più coesa e completa. L’effetto finale della costruzione di una buona narrazione è che il nostro ricordo degli eventi emotivamente carichi è efficiente – in quanto possediamo una storia relativamente breve e coerente – e indubbiamente deformato.


Paradossalmente quindi le buone narrazioni possono essere benefiche in quanto rendono le nostre esperienze complesse più semplici e comprensibili, ma, allo stesso tempo, distorcono il loro ricordo. In definitiva la traduzione della sofferenza in linguaggio ci permette di dimenticarla o, meglio, di superarla. 


L’atto di costruire storie, scrivono Pennebaker e Seagal nel 1999, è un processo umano naturale che aiuta le persone a comprendere le esperienze e se stessi. Questo processo permette di organizzare e ricordare gli eventi in un modo coerente, integrando pensieri e stati d’animo. In sostanza, ciò dà alle persone un senso di prevedibilità e controllo sulla loro vita. Una volta che un’esperienza ha struttura e significato, ne conseguirebbe una maggiore gestibilità degli effetti emozionali di quella esperienza. La costruzione di storie facilita un senso di risoluzione, che si accompagna a una riduzione della ruminazione mentale e, alla fine, permette alle esperienze disturbanti di ritirarsi dal pensiero cosciente. 



Lo stile linguistico e le relazioni con gli altri come predittori dei benefici della scrittura


“Nel lavoro con il LIWC”, ha scritto Pennebaker recentemente (2002) “cademmo all’inizio nella stessa trappola in cui sono finiti altri esperti di analisi dei testi: ci concentrammo su dimensioni contenutistiche tradizionali, come classi di termini emozionali, riferimenti a morti, sesso, religione e denaro. Tuttavia, queste classi di parole non risultarono fortemente correlate con molte misure di esito importanti”. Nel corso degli anni si è capito che è molto più importante valutare come le persone parlano di un certo argomento che non di cosa parlano. Gli stili linguistici hanno fornito informazioni psicologiche molto più ricche che non il contenuto linguistico.


Benché il metodo del conteggio delle parole sia promettente, gli effetti riportati sono modesti e spesso incostanti. In questi metodi di valutazione dei testi è mancata una metodologia che cogliesse in modo attendibile la coerenza complessiva del testo. In psicoterapia la questione della coerenza è importante perché si ritiene che, affinché i pazienti migliorino, debba esserci un cambiamento nel loro modo di pensare. Ne consegue che, se il paradigma della scrittura agisse secondo principi simili, le persone che ne traggono giovamento dovrebbero presentare nella successione dei testi dei cambiamenti nel loro modo di scrivere. Il problema è nel definire e misurare la somiglianza o coerenza fra i testi (Cambell e Pennebaker, 2003).


Negli ultimi anni, alcuni esperti di intelligenza artificiale hanno messo a punto varie procedure matematiche per esaminare la somiglianza dei testi senza ricorrere a valutazioni umane. Una strategia particolarmente promettente, la Latent Semantic Analysis/LSA, calcola un coefficiente di somiglianza fra due testi qualsiasi in modo multidimensionale e attendibile. I campioni di testo possono essere frasi adiacenti o testi diversi scritti dalla stessa persona (vedi Foltz, Kintsch e Launder, 1998; Landauer, Foltz e Laham, 1998). La LSA può quindi essere uno strumento adatto a misurare la somiglianza fra gli scritti prodotti dai partecipanti nel corso del tempo. Questi indicatori di somiglianza possono poi essere correlati con le misure di esito.


I giudizi sul grado di somiglianza fra due testi dipendono molto dalla base di confronto. La LSA sviluppa una base di confronto a partire da un corpus di apprendimento (training corpus) di campioni di testo. Le diverse parole all’interno dei vari campioni di apprendimento sono sottoposte a una strategia analitica chiamata decomposizione del valore singolare (singular value decomposition), concettualmente simile all’analisi fattoriale. Ne risulta una serie di “fattori” lessicali che rappresentano la struttura linguistica sottostante del corpus di apprendimento. Nel complesso, queste informazioni costituiscono uno spazio semantico. La somiglianza di una nuova coppia di campioni di testo può essere valutata applicando le saturazioni fattoriali, ricavate dallo spazio semantico, alle loro rispettive parole (Cambell e Pennebaker, 2003).


In genere la LSA viene usata per confrontare il contenuto di campioni di testo escludendo dall’analisi le parole più comuni – articoli, verbi ausiliari, preposizioni e pronomi - denominate collettivamente particelle o parole funzionali. Mentre le parole di contenuto (content words), più esplicite e meno frequenti, ci dicono cosa l’autore sta dicendo, secondo Cambell e Pennebaker (2003) le particelle, più numerose, ci dicono come l’autore sta parlando. 


Le analisi linguistiche più recenti, basate sulla LSA e mirate alle particelle, mostrano che i testi scritti dai soggetti negli esperimenti con il paradigma della scrittura registrano una trasformazione nel modo in cui gli autori pensano a loro stessi in rapporto agli altri (Pennebaker, 2002). Si osserva infatti un cambiamento notevole nell’uso dei pronomi. Facendo una media su tre studi di scrittura espressiva condotti in passato emerge che le persone a cui scrivere fa bene passano giorno dopo giorno da testi in prima personale singolare, ad altri in prima persona plurale o scritti assumendo il punto di vista di altre persone. Di particolare interesse è il fatto che questi cambiamenti nell'uso dei pronomi avvengono con buona probabilità anche nella vita quotidiana dei soggetti (Campbell e Pennebaker, 2003), come vedremo nel paragrafo seguente. 



Il linguaggio come indicatore di integrazione sociale


Il fine ultimo del linguaggio, osserva Pennebaker, è comunicare idee e pensieri ad altri. Se scrivere di argomenti emotivi può migliorare la salute, probabilmente il fatto di parlare di argomenti emotivi con le persone che si conoscono può assolvere alla stessa funzione. Parlare agli altri delle proprie esperienze personali ha in definitiva due funzioni. La prima, che Pennebaker e colleghi hanno esaminato nei loro studi sulla scrittura, è di aiutare la persona a raggiungere una certa comprensione cognitiva dell’evento. La seconda è di carattere sociale: quando parliamo agli altri delle nostre esperienze, questo fatto richiama la loro attenzione sul nostro stato psicologico e, in ultima analisi, ci permette di restare più legati a loro. Per contro, se abbiamo avuto un’esperienza traumatica e non lo diciamo ai nostri amici, è più probabile che viviamo in una condizione di distanza e isolamento. Parlare di un’esperienza emozionale, quindi, può aiutarci a integrarci maggiormente nella nostra rete sociale. 


In una verifica recente di questa seconda idea, Mehl e Pennebaker (2003a) hanno chiesto a un gruppo di 52 studenti di indossare l’Electronically Activated Recorder/EAR, per due giorni. Due settimane dopo hanno chiesto loro di scrivere di scrivere di argomenti superficiali o di argomenti emotivi per tre giorni. Due settimane dopo avere scritto, hanno indossato di nuovo l’EAR per due giorni. Con questo sistema è stato possibile determinare come gli studenti si esprimevano quando parlavano con le altre persone della loro rete sociale. Le analisi preliminari dimostrano che il fatto di scrivere ha modificato le interazioni con gli altri; sono emersi cambiamenti significativi nei modelli di discorso, nell’uso di riferimenti a sé e nell’espressione di emozioni positive rispetto ai livelli di baseline. Questi sono i primi dati che dimostrano che il fatto di scrivere di argomenti emotivi finisce per produrre cambiamenti nei comportamenti linguistici e sociali oggettivi (per risultati concettualmente simili, vedi Finkenauer e Rimé, 1998).


Usando l’EAR Pennebaker e colleghi stanno scoprendo che dopo avere scritto dei propri turbamenti emotivi cambia il modo in cui le persone parlano con gli altri. Per esempio, negli uomini c’è un aumento, ma nelle donne un calo, nell’uso della prima persona plurale. Gli uni e le altre, tuttavia, trascorrono più tempo con gli altri, ridono di più nelle loro interazioni e usano vocaboli emozionali più positivi (Pennebaker, 2002).



Insomma, perché scrivere può fare bene?  


Sloan e Marx (2004) hanno dimostrato su scala ampia ciò che molti altri avevano già capito su scala più ridotta: non c’è una singola teoria capace di spiegare l’efficacia del paradigma della scrittura. Non c’è mai stata una ragionevole speranza di scoprire un’unica teoria o un singolo processo di mediazione capace di spiegare il potere della scrittura. 


Consideriamo il paradigma della scrittura da una prospettiva più ampia. Una gran varietà di persone – malate e sane, stressate e non stressate, di tutte le età, di entrambi i sessi, di varie etnie, con diagnosi diverse – riceve la consegna di trattare per iscritto questioni personali che risvegliano in loro forti emozioni, scelte da loro, per 3-5 giorni. Gli argomenti variano: si va dalle fonti di stress presenti al momento a episodi dell’infanzia che possono essere accaduti decenni prima. Le misure di esito sono in genere indicatori cumulativi e a lungo termine di salute fisica, fra cui visite mediche, o indicatori biologici che si accumulano in giorni, settimane e a volte mesi. Fra il momento in cui vengono eseguite le prove di scrittura e le misurazioni dell’esito avvengono tanti processi che si sovrappongono e che influiscono sui partecipanti all’esperimento, fra cui i seguenti.


Cambiamenti cognitivi immediati. Quando una persona affronta per iscritto un evento carico di emozioni, spesso si trova costretta a dargli un nome, una struttura o a organizzarlo come mai aveva fatto in passato. Inoltre si trova costretta a esporre le informazioni in forma linguistica, spesso per la prima volta, a un destinatario ambiguo (lo sperimentatore) e a se stessa. Questi cambiamenti immediati sono spesso i più difficili da capire, ed è molto difficile stabilire se siano o meno correlati allo stato di salute a lungo termine. 


Cambiamenti emozionali immediati. Il confronto diretto con una fonte di turbamento emozionale è spesso accompagnata da processi di abituazione ed estinzione. Alla luce della letteratura scientifica sul flooding, la terapia implosiva e la terapia di esposizione c’è ragione di credere che la scrittura emozionale possa ridurre l’effetto dei pensieri che si riferiscono al trauma (per es., Foa & Kozak, 1986; Mowrer, 1960). È difficile collegare questi processi a breve termine con la salute fisica a lungo termine. 


Cambiamenti cognitivi ed emozionali più a lungo termine. Una ricerca di Klein e Boals (2001) suggerisce che un effetto della scrittura potrebbe essere quello di svuotare la memoria di lavoro. Nelle settimane successive alle sessioni di scrittura (ma non immediatamente dopo) le persone tendono a pensare di meno ai loro traumi e possono rivolgere i loro pensieri ad altri aspetti della loro vita. Uno studio di Lepore (1997) inoltre suggerisce che l’attivazione emozionale immediata, associata alla scrittura, si spegne con il trascorrere del tempo e, nell’arco di qualche settimana, conduce a una riduzione dei pensieri emotivamente carichi che concernono le tematiche affrontate per iscritto. Ancora una volta, le connessioni fra questi effetti della scrittura più a lungo termine e lo stato di salute non sono chiari. 


Correlati e conseguenze sociali della scrittura. Immancabilmente, quando una persona mette per iscritto un'esperienza traumatica vissuta, affronta problematiche di carattere sociale. Un trauma può essere dovuto a un incidente isolato che non coinvolgeva altre persone; ciò nondimeno ha invariabilmente degli effetti sul mondo sociale dell’individuo. Cominciamo a capire in che modo la scrittura emozionale può influire sulla vita sociale delle persone. In alcuni studi pilota tuttora in corso, come si è detto sopra, si osserva che quando i partecipanti scrivono dei loro turbamenti emozionali, cominciano gradualmente a parlare in modo diverso con gli altri. Tendono a parlare di più del loro trauma, a ridere di più e anche a modificare in modo sottile le loro reti di amicizie (vedi Pennebaker e Graybeal, 2001). 


Gli effetti biologici. Se nel paradigma della scrittura si attivasse un singolo processo psicologico, esso dovrebbe avere dei riflessi biologici relativamente chiari. Tuttavia, come ha evidenziato anche la rassegna di Sloan e Marx (2004), gli indicatori biologici di salute autonomici, immunitari e di altro tipo sono molto complessi. Il migliore esempio è forse lo studio di Smyth et al. (1999) in cui alcune persone affette da asma e artrite sono state assegnate a caso a una condizione sperimentale in cui dovevano scrivere di ciò che le disturbava emozionalmente o a una condizione di scrittura di controllo. Molti effetti che non si manifestarono nel mese successivo comparvero invece nei mesi seguenti. In altre parole, gli effetti della scrittura sembrarono graduali e cumulativi, riflettendo probabilmente una moltitudine di processi psicologici, sociali e biologici.


Consideriamo il paradigma della scrittura dal punto di vista dei partecipanti. Le persone partecipano allo studio mentre sono alla prese con un turbamento emozionale che grava in qualche modo su di loro: ci pensano, lo sognano e forse evitano di parlarne con amici e familiari. Il processo di elaborazione emozionale e psicologica di tale esperienza stressante può ripercuotersi sulle loro prestazioni scolastiche o lavorative e può esercitare effetti negativi sulla loro salute attraverso una risposta generalizzata di stress. 


Apparentemente il paradigma della scrittura è abbastanza insignificante: si tratta di esercizi relativamente brevi che vengono ripetuti per una quantità di tempo piuttosto ridotta. Tuttavia la scrittura obbliga i partecipanti a riflettere sui loro turbamenti emozionali e sulla loro vita in generale e modifica il loro modo di pensare a quegli eventi sia nel breve che nel lungo periodo. Questi cambiamenti provocano cambiamenti sociali ed emozionali, che a loro volta sollecitano altri cambiamenti cognitivi. L’intervento basato sulla scrittura, quindi, non è riducibile a tre sessioni di scrittura da un quarto d’ora ognuna: durante e dopo la scrittura, le persone riferiscono di tornare nei loro pensieri, discorsi e sogni sui temi trattati (Lepore e Smith, 2002; Pennebaker, 1997a). L’attività di scrittura va a toccare tutti gli aspetti della loro vita. Nei giorni e nelle settimane intorno all’intervento di scrittura sono attivi molti processi sociali e psicologici. Non sorprende quindi che non ci sia un consenso su una singola teoria per la spiegazione di questi effetti.



Come usare il metodo della scrittura espressiva


L’anno scorso Pennebaker ha pubblicato un suo “metodo” di scrittura espressiva (2004b). Ma già in passato, in alcuni documenti divulgati via Internet e nel libro Opening up, aveva tratteggiato alcuni elementi essenziali che riporto di seguito. 


Le mie indicazioni sul confronto con le circostanze che vi hanno turbato derivano da numerosi esperimenti, da qualche studio di caso e dalla mia esperienza personale. Non è affatto escluso che scrivere dei vostri traumi o dei sentimenti che vi sconvolgono possa non esservi di aiuto. In tal caso, dovreste fare la parte del ricercatore nei vostri stessi confronti. Provate a cambiare argomento o metodo. Può darsi che nel vostro caso, per risolvere i vostri conflitti, funzioni qualcosa che non funzionerebbe con nessun altro. Tenendo a mente queste premesse, considerate ora le risposte ad alcune delle domande più comuni a proposito del metodo della scrittura. 

Quale dovrebbe essere l’argomento della scrittura? Non è necessario scrivere dell’esperienza più traumatica della vostra vita. È più importante concentrarsi sui problemi che state vivendo al momento. Se vi pare di sognare troppo frequentemente, o di passare troppo tempo a pensare a, un episodio o un’esperienza particolare, scrivere su di esso può servire a risolverlo nella vostra mente. Analogamente, se c’è qualcosa che vorreste dire a qualcuno, ma tacete per paura di sentirvi in imbarazzo di doverne poi pagare le conseguenze, esprimetevi per iscritto.

Qualunque sia l’argomento, è essenziale esplorare sia l’esperienza oggettiva (cioè che cosa è successo) sia i vostri sentimenti in proposito. Lasciatevi andare veramente e scrivete delle vostre emozioni più profonde: che cosa provate a riguardo e perché. Scrivete ininterrottamente. Non preoccupatevi della grammatica, dell’ortografia o della struttura della frase. Se esaurite l’argomento o se a un certo punto vi sentite bloccati, non dovete fare altro che ripetere quello che avete già scritto. 

Dove e quando scrivere? Scrivete ogni volta che ne avete voglia o che sentite di averne bisogno. Non credo che sia necessario scrivere sulle esperienze importanti tanto spesso. Sebbene molte persone tengano un diario che aggiornano quotidianamente, la maggior parte delle annotazioni non riguarda questioni psicologiche fondamentali. Inoltre, state attenti a non scrivere troppo. Non usate la scrittura come sostituto dell’azione o come strategia di evitamento. Essere moderati comporta regolatezza anche nella trascrizione dei propri pensieri e stati d’animo. Il luogo della scrittura dipende dalle circostanze personali. I nostri studi suggeriscono che più il luogo è eccezionale, meglio è. Cercate di trovare una stanza in cui non sarete interrotti né disturbati da rumori, immagini e odori.

Che uso fare del proprio testo? L’anonimato è importante nei nostri esperimenti. In molti casi, è bene tenere per sé ciò che si è scritto. Una volta finito di scrivere si può anche strappare e gettare via il foglio (anche se per molti è difficile farlo). Il proposito di mostrare poi a qualcuno quello che si è scritto può influire sulla vostra disposizione mentale durante la scrittura. Se sotto sotto vi piacerebbe far leggere i vostri pensieri e sentimenti più profondi alla persona amata, per esempio, nello scrivere vi rivolgereste a lei anziché a voi stessi. Per la vostra salute invece è meglio che il vostro testo sia destinato solo a voi stessi. Così non dovrete trovare ragioni o giustificazioni per adeguarvi alla prospettiva di qualcun altro.

E per chi detesta scrivere esiste un metodo alternativo? Vari studi di laboratorio hanno confrontato la scrittura con il monologo registrato. Nella maggior parte dei casi è emerso che le due strategie danno risultati analoghi, personalmente ritengo che sia un po’ meglio scrivere, dato che basta avere carta e penna e un angolo tranquillo in cui appartarsi per rivelare il proprio vissuto. Il monologo richiede un registratore e un luogo in cui si possa parlare ad alta voce. Ad ogni modo, che scegliate di scrivere o di parlare, fatelo ininterrottamente per quindici minuti al giorno.

A prescindere dal medium con cui vi trovate più a vostro agio, ricordate che per riuscire a lasciarvi andare e a rivelare i vostri lati intimi può essere necessario un certo esercizio. Se non avete mai scritto o parlato dei vostri pensieri e stati d’animo, all’inizio la cosa potrà sembrarvi abbastanza difficile o imbarazzante. In questo caso non dovete fare altro che rilassarvi ed esercitarvi. Scrivete o parlate ininterrottamente per una quantità di tempo prestabilita. Nessuno vi sta giudicando.

Cosa ci si può aspettare di provare durante e dopo la scrittura? Come è emerso in molti studi, subito dopo avere scritto ci si può sentire tristi o depressi. Questi stati d’animo passano in genere nell’arco di un’ora circa. In casi rari, possono durare uno o due giorni. La stragrande maggioranza dei soggetti volontari tuttavia riferisce di sentirsi sollevati, contenti e soddisfatti poco dopo la conclusione dello studio sulla scrittura.

L’esplorazione dei pensieri e sentimenti più reconditi non è una panacea. Se state affrontando un lutto, un divorzio, o un’altra tragedia, non vi sentirete subito meglio dopo avere scritto. Dovreste in ogni caso sentire di comprendere meglio i vostri stati d’animo, le vostre emozioni e la situazione oggettiva in cui vi trovate. In altre parole,  scrivere dovrebbe permettervi di prendere un po’ le distanze dalla vostra vita e vederla più obiettivamente” (Pennebaker, 1997a).




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