Che cos'è la psicoterapia cognitivo-comportamentale


La psicoterapia cognitivo comportamentale è nata dall’applicazione di alcune teorie psicologiche scientifiche ai problemi umani. Anche se è sempre aperta a ogni nuovo contributo scientifico che possa essere utile per aiutare le persone a migliorare la loro condizione di vita, si rifà in modo particolare alla psicologia dell’attenzione, della percezione, del pensiero, dell’apprendimento, delle emozioni, della famiglia e dei rapporti con gli altri e con la società.


Le teorie scientifiche e le strategie e i metodi di aiuto su cui si basa la terapia cognitivo comportamentale sono moltissimi e in continua evoluzione. Pertanto qui vengono presentate solo alcune caratteristiche generali e comuni alle varie forme di psicoterapia cognitivo comportamentale; le cause e le spiegazioni dei vari disturbi mentali verranno presentate in altri lavori su questo stesso sito. 


Un presupposto scientifico fondamentale – che non contraddistingue in modo specifico la psicoterapia cognitivo comportamentale – è che ciò che chiamiamo “corpo” e “mente” non siano due cose separate e a sé stanti. Non ha quindi molto senso distinguere nettamente fra disturbi psicologici e disturbi fisici. Ogni stato di benessere o di malessere si manifesta, in una certa misura, sia sul piano della struttura e delle funzioni del corpo, sia sul piano dei processi del pensiero, dell’emozione, della motivazione (cioè della spinta ad agire) e dell’azione. Gli aspetti psicologici e corporei della salute interagiscono fra loro e con il contesto fisico e sociale in cui la persona vive.


Un altro presupposto fondamentale su cui si basa la terapia cognitivo comportamentale è che i disturbi psicologici siano in buona parte il frutto dell’esperienza passata e dell’apprendimento e che, così come sono stati appresi, possono essere combattuti con opportune esperienze correttive. Per esempio, così come “si impara ad essere ansiosi”, si può imparare a controllare l’ansia. Con ciò non viene comunque negato il possibile contributo di fattori biologici e costituzionali nelle varie forme di sofferenza mentale – per esempio, la predisposizione genetica a soffrire di certe forme di ansia.


Un contributo importante all’insorgenza e al perdurare dei disturbi psicologici è dato dal contesto sociale in cui la persona vive: le persone con cui ognuno di noi è o è stato in contatto contribuiscono notevolmente alla nostra condizione di benessere o di malessere. Con la terapia cognitivo comportamentale è possibile imparare a controllare l’influenza del contesto in cui si vive modificandolo o controllandolo. Spesso questo obiettivo viene raggiunto migliorando la propria capacità di comunicare e di regolare i rapporti con gli altri.


È possibile anche imparare a limitare gli effetti dannosi di un ambiente (cioè di certe persone e di certi luoghi) sfavorevole intervenendo su se stessi. In buona parte, i sintomi dei disturbi mentali dipendono da quanto avviene nella nostra “mente”, cioè da cosa e da come pensiamo. Ciò che avviene nella nostra mente è in parte frutto delle esperienze passate e presenti, in parte l’effetto della costituzione biologica e in parte generato da noi stessi, con “pensieri” e scelte. Quest’ultimo contributo è particolarmente importante: spesso le persone soffrono per le conclusioni a cui arrivano con i loro ragionamenti, per i confronti che fanno con gli altri, per le scelte che compiono, per gli obiettivi che si prefiggono. La terapia cognitivo comportamentale interviene anche sulla fonte mentale (cognitiva) dei disturbi psicologici insegnando al paziente a identificare, analizzare e correggere i pensieri falsi, arbitrari o distorti che lo fanno agire in modo inadeguato e che gli provocano direttamente sofferenza generando stati d’animo negativi inutili o eccessivi.


Fatti, pensieri ed emozioni


Non sono le cose in sé, i fatti nudi e crudi, che ci fanno stare bene o male, ma è il modo in cui noi li interpretiamo, cioè che cosa pensiamo di essi. In altre parole il nostro stato d’animo dipende in gran parte dai nostri pensieri. E poiché in buona parte possiamo scegliere cosa e come pensare, possiamo anche controllare i nostri stati d’animo.


Naturalmente ci sono alcuni fatti che non farebbero piacere a nessuno e altri che sono belli per chiunque. Per esempio, è difficile valutare positivamente la morte di una persona cara o considerare un amore che sta nascendo come una disgrazia. In alcuni casi estremi i fatti parlano da sé e la loro interpretazione ha un ruolo minore nel nostro stato d’animo. Ma anche in questi casi l’intensità e la persistenza degli d’animo negativi o positivi può essere in parte controllata; per esempio ci si può distrarre da certi pensieri dedicandosi ad attività interessanti e coinvolgenti. Al di là dei casi estremi, comunque, c’è un’infinità di situazioni e di episodi della vita quotidiana che creano molta sofferenza e che sono di per se stessi abbastanza ambigui, prestandosi così a interpretazioni e considerazioni diverse.


Molti di questi episodi e di queste situazioni riguardano il rapporto con le altre persone. Nel rapporto con gli altri possiamo soffrire molto a causa dei pensieri che facciamo a proposito delle intenzioni e dei sentimenti di persone per noi importanti, dei motivi che le hanno indotte a comportarsi in un certo modo. Poiché non possiamo leggere nella mente degli altri, spesso, quando cerchiamo di spiegarci il loro comportamento, ci convinciamo di idee arbitrarie e opinabili o del tutto sbagliate, incoerenti e contraddittorie che causano in noi una sofferenza inutile o spropositata.


Quando pensiamo di avere subito un offesa, un torto o un’ingiustizia tendiamo a provare rabbia verso la persona responsabile e proviamo il desiderio di eliminarla, neutralizzarla o nuocerle. E sovente in un modo o nell’altro manifestiamo i nostri sentimenti di collera e le nostre intenzioni aggressive. Quando pensiamo di aver perso irrimediabilmente qualcosa di molto importante – per esempio una persona, la stima di qualcuno che per noi è importante, la salute, un’occasione propizia, un oggetto, la propria stima di sé, la fiducia negli altri, l’ottimismo – tendiamo a provare sentimenti di tristezza o di depressione e ci sentiamo privi di iniziativa, stanchi, abbattuti. In questi casi, dopo aver fatto il possibile per ottenere ciò che ormai è perso, tendiamo a ridurre il nostro livello di attività e cerchiamo il conforto di qualcuno oppure ci abbandoniamo all’apatia, con la sensazione che tanto è tutto inutile. Quando crediamo di correre dei rischi ci sentiamo ansiosi, tesi e spaventati. Se questi sentimenti sono forti, l’impulso più frequente è quello di evitare ciò che temiamo, e, in effetti, cerchiamo di neutralizzare il pericolo o di stargli alla larga. Quando ci aspettiamo che accada qualcosa di desiderato ci sentiamo felici e pieni di energie.


Tutti questi stati d’animo si accompagnano a certi cambiamenti all’interno del nostro organismo: per esempio, quando si prova paura o collera, il cuore batte più velocemente, il respiro si fa più frequente, la pressione sanguigna sale, sudiamo e via dicendo. Le reazioni corporee che si accompagnano ai diversi stati d’animo sono piuttosto simili fra loro. Ma, mentre i cambiamenti associati, per esempio, all’eccitamento sessuale o alla gioia non sono quasi mai sgradevoli, ci sono molte persone che temono certe reazioni corporee, per esempio, quelle associate alla paura e al panico. Così, quando le persone ansiose sentono l’organismo in subbuglio, temono di perdere il controllo, impazzire, morire o fare qualche cosa di insensato o pericoloso. Inoltre, si spaventano per le sensazioni generate da questi cambiamenti del corpo: capogiri, senso di confusione, stanchezza, dolori, nausea, bisogno di urinare e via dicendo. Così, spesso i pazienti cercano un aiuto psicologico o psicoterapeutico per quanto avviene nel loro corpo. In gran parte le reazioni del corpo dipendono, come le emozioni, dai pensieri che facciamo.


L’intervento sui pensieri dannosi


Poiché molti stati d’animo, impulsi e sensazioni che hanno la caratteristica di essere sgradevoli, spaventosi, inaccettabili o comunque indesiderati dipendono da come e da che cosa si pensa, parte dell’intervento cognitivo comportamentale mira a migliorare il modo pensare della persona in cerca di aiuto. L’intervento si articola grossomodo nelle fasi seguenti, che vengono distinte solo a scopo esplicativo e non perché avvengano necessariamente in quest'ordine.

  • Innanzitutto il terapeuta spiega al paziente come i pensieri possano influire su ciò che si prova, si desidera e si fa. Gli mostra come distinguere i pensieri utili, che producono stati d’animo e azioni positive, da quelli dannosi, che producono emozioni e azioni negative. Lo aiuta anche a rendersi conto di come a volte il nostro modo di ragionare non sia del tutto logico e basato sui fatti e di come i problemi psicologici possano dipendere da questi pensieri distorti o falsi. Dimostra anche come spesso esistano pensieri alternativi a quelli che provocano sofferenza e come questi pensieri alternativi possano essere più razionali, veritieri o utili.
  • Poi il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere quali sono i suoi pensieri nelle situazioni in cui prova stati d’animo negativi o fa cose che non vorrebbe fare. Senza rendersene perfettamente conto, infatti, ognuno di noi dialoga con se stesso dentro la sua mente e commenta ciò che accade. Inoltre, spesso, specialmente nelle situazioni difficili, la nostra mente è attraversata da pensieri velocissimi che si presentano in forma semplificata e abbreviata e che prendiamo per buoni senza neanche provare a valutarli. Non siamo del tutto consapevoli di questi pensieri ma possiamo diventarlo con un po’ di allenamento. È in questo dialogo interno e in questi pensieri che si nasconde buona parte delle cause dei disturbi psicologici o psichiatrici.
  • Una volta individuati i pensieri critici – quelli che provocano gli stati d’animo e le azioni indesiderati – il terapeuta, ponendo certe domande e consigliando al paziente di fare la prova a comportarsi in un certo modo, aiuta il paziente a giudicare tali pensieri spassionatamente e realisticamente, a metterli alla prova. Se ci si rende conto che, in effetti, il contenuto di questi pensieri è sbagliato, illogico, arbitrario o controproducente, paziente e terapeuta vanno alla ricerca di pensieri più adeguati. Se il paziente è realmente convinto che le sue interpretazioni, i suoi giudizi, le sue previsioni o i suoi timori erano infondati, irrealistici o controproducenti, e che c’è un modo migliore e più salutare di vedere le cose, prova subito una sensazione di sollievo.
  • A questo punto, il paziente comincia ad allenarsi a mettere in discussione i suoi pensieri distorti e dannosi nelle stesse situazioni in cui essi si affacciano alla sua mente e a sostituirli con i pensieri più adeguati che in parte ha identificato col terapeuta e in parte ha imparato a riconoscere da sé. Se l’allenamento è costante, il nuovo modo di pensare diventa un automatismo e, se la terapia è ben riuscita, il paziente impara a controllare in generale il suo modo di pensare e di agire, applicando i principi e i metodi imparati anche alle altre situazioni emotivamente difficili che incontrerà in futuro.


Distorsioni cognitive


Nella ricerca dei pensieri controproducenti, il terapeuta e il paziente possono servirsi dei risultati dello studio di molti altri casi simili. Così, diversi psicoterapeuti cognitivo comportamentali hanno identificato le idee irrazionali e distorsioni del pensiero che sono alla base di gran parte della sofferenza umana. A titolo di esempio elenco di seguito alcune distorsioni del pensiero che possono provocare collera e azioni controproducenti nei rapporti di coppia. Si tratta delle “distorsioni cognitive” identificate dallo psicoterapeuta A.T. Beck:


  • “Visione a tunnel. Quando si cade in questo meccanismo, si vedono soltanto le caratteristiche del partner coerenti con un determinato atteggiamento o stato d’animo. Per esempio, quando si è  arrabbiati può essere difficile ricordare i momenti piacevoli trascorsi insieme.
  • Deduzione arbitraria. A partire dal comportamento del partner deduciamo qualche cosa di completamente sbagliato su di lui. Per esempio, un uomo è di buon umore e canticchia spensieratamente; la moglie, senza alcun motivo plausibile, pensa: “Lo fa per farmi arrabbiare”.
  • Generalizzazione eccessiva. Si tratta di una percezione distorta del comportamento del coniuge in cui vengono generalizzati i suoi aspetti negativi. Si prende spunto da uno o pochi episodi per trarre la conclusione che si tratta di un comportamento tipico o generalizzato. Per esempio, un giorno un uomo non bacia sua moglie al rientro a casa; lei pensa “Non mi dà mai dimostrazioni di affetto”. Una moglie sotto stress dimentica di svolgere una commissione per il marito; il marito borbotta fra sé e sé: “Pensa solo a se stessa, è sempre così”. Nei pensieri in cui c’è una generalizzazione eccessiva compaiono parole come “tutto”, “niente”, “mai”, “sempre”, “ogni”, “nessuno”.
  • Pensiero tutto o niente. È la distorsione per cui non si riescono a cogliere le sfumature e le vie di mezzo delle situazioni; le cose appaiono buone o cattive, bianche o nere, possibili o impossibili, perfette o inaccettabili. Un esempio di pensiero “tutto o niente” è: “O andiamo sempre d’accordo oppure vuol dire che il nostro rapporto non può funzionare”.
  • Esagerazione. È la tendenza a vedere le cose peggio di quello che sono. A una cena con amici un marito corregge la moglie, che parlando ha detto un’inesattezza. Lei prova un misto di vergogna e rabbia pensando: “Non posso sopportare questa terribile umiliazione!”.
  • Spiegazioni prevenute. Si ha una spiegazione pronta, di tipo negativo, per molte cose che il partner fa. Per esempio, un giorno una moglie fa la spesa in una bella rosticceria del centro; il marito non riesce a vedere nessun motivo positivo alla base di ciò e pensa: “Non fa attenzione alle spese”. Se la stessa donna avesse comprato le solite cose da mangiare, lui avrebbe pensato: “Non le interessa che potrebbe farmi piacere una volta tanto mangiare qualcosa di speciale”.
  • Etichette negative. È un meccanismo analogo al precedente, e in questo caso il motivo del comportamento sgradito del partner sta in una sua caratteristica generale negativa. Esempi: “Fa così perché è stupido/uno zotico/egoista/ecc.”.
  • Personalizzazione. È la tendenza a pensare spesso che il partner voglia dimostrarci qualche cosa con il suo comportamento, trascurando la possibilità che l’altro agisca senza neppure pensare a noi. Per esempio, se la moglie tace, il marito è convinto che lei stia meditando qualcosa contro di lui; se torna a casa in anticipo rispetto al previsto, lui pensa che lo voglia controllare; se non si trucca, lui pensa che a lei non interessi piacergli.
  • Lettura del pensiero. Si è vittime di questa distorsione quando, nonostante le smentite del partner, si è fermamente convinti di sapere che cosa lui/lei provi, pensi, voglia. Può accadere anche l’inverso; in questo caso ci si aspetta che l’altro sappia già quello che noi pensiamo, proviamo, volgiamo senza bisogno di dirglielo.
  • Ragionamento soggettivo. È la tendenza a credere che, poiché io provo uno stato d’animo negativo, l’altro deve aver fatto qualcosa di male che giustifichi tale stato d’animo. In altre parole, si cerca all’esterno l’origine di stati d’animo negativi che si giustificano invece sulla base di eventi interiori. Esempi: “Siccome mi sento gelosa lui deve aver avuto qualche scappatella”, “Se io sono di cattivo umore è perché lei mi ha trattato senza rispetto”, “Se sono triste, vuol dire che il mio partner non mi vuole bene” (G. Lo Iacono, D’amore e d’accordo, 1999, pp. 196-198).


Tecniche di intervento


Le tecniche della terapia cognitivo comportamentale sono numerosissime e non possono essere elencate qui in modo completo. La scelta di quelle da applicare con un dato paziente dipende, fra le altre cose, dal problema su cui si vuole intervenire, dalle caratteristiche del paziente e dalle preferenze teoriche e pratiche del terapeuta.


Nella sezione "L'intervento sui pensieri dannosi" ho descritto un procedimento generale piuttosto comune nelle varie forme di terapia cognitivo comportamentale. Per identificare le idee o i pensieri dannosi il terapeuta può proporre al paziente l’utilizzo di una specie di diario strutturato, che verrà utile anche nella fase della discussione e della sostituzione di tali idee pensieri. In genere, in questo diario il paziente annota: giorno, ora e luogo dell’episodio in cui si è verificato il suo problema, il tipo e l’intensità dei sentimenti negativi provati, le caratteristiche della situazione in cui ha provato tali sentimenti (cosa stava facendo in quel momento, chi c’era vicino a lui, ecc.), i pensieri fatti subito prima di provare tali sentimenti, le azioni svolte subito dopo. In una fase successiva della terapia, il paziente prenderà anche nota di come si è sentito, in quella stessa circostanza, dopo aver provato a fare dentro di sé il tipo di considerazioni fatte con lo psicoterapeuta a proposito dei pensieri dannosi.


Durante le sedute con lo psicoterapeuta, la fase dell’analisi critica e della discussione dei pensieri dannosi avviene attraverso un particolare uso delle domande che porta il paziente ad “aprire gli occhi” sulla veridicità e sulla razionalità del suo modo di interpretare gli episodi e le situazioni della sua vita.


Allo stesso scopo possono essere utilizzati anche degli “esperimenti” in cui il paziente è invitato a constatare personalmente, agendo nel modo suggerito dallo psicoterapeuta, se certi fatti che lui si aspetta, e la cui previsione provoca sofferenze inutili, avvengono realmente e se, quando tali fatti avvengono effettivamente, hanno veramente le conseguenze che ci si immaginava avrebbero avuto.


Nelle forme di terapia cognitivo comportamentale più orientate all’azione, i nuovi modi di agire non sono solo oggetto di discussioni con lo psicoterapeuta, ma sovente il paziente impara nuovi comportamenti osservando un modello – talvolta lo stesso psicoterapeuta – che agisce ed esprime ad alta voce i suoi pensieri. Inoltre, il paziente può cominciare a mettere in pratica i nuovi comportamenti nello studio dello psicoterapeuta, nel corso di simulazioni in cui si cerca di ricreare le situazioni in cui il paziente dovrà effettivamente agire. Tutto ciò aiuta sviluppare stili di pensiero e di comportamento efficaci.


Spesso nello studio dello psicoterapeuta cognitivo comportamentale si apprendono metodi per controllare le reazioni emotive e fisiologiche alle situazioni stressanti (per esempio, si impara a controllare i sentimenti di collera o di paura e le reazioni fisiologiche concomitanti) e poi si provano questi metodi nelle situazioni reali della vita quotidiana. Il controllo emotivo e fisiologico viene spesso raggiunto anche con l’apprendimento di tecniche di rilassamento basate sulla respirazione, il rilassamento muscolare e l’uso di immagini mentali e di certi pensieri.


Spesso lo psicoterapeuta suggerisce al paziente alcune esperienze da compiere fra una seduta e l’altra. Lo scopo può essere, per esempio, quello di provare nuovi modi di agire, proseguire l’esercizio di una qualche capacità appresa nello studio, fare nuove scoperte su di sé o sulle persone importanti della propria vita. Così, parte del tempo della seduta psicoterapeutica può essere utilizzato per analizzare l’effetto che hanno avuto i “compiti comportamentali”, raggiungere conclusioni sulle esperienze fatte, modificare ciò che eventualmente non ha funzionato, escogitare nuovi comportamenti da esplorare o passare alla fase successiva di un programma di apprendimento di nuove abilità.


Cause passate e presenti


La psicoterapia cognitivo comportamentale – tranne alcune eccezioni – non ricerca le cause del malessere presente nel passato lontano del paziente; se una persona sta male ora, vuole dire che c’è attualmente in lei e/o nel suo ambiente (i luoghi e le persone con cui passa ogni giorno il suo tempo) qualcosa che la fa stare male. Si può soffrire per qualcosa che è avvenuto in passato, ma solo fintanto che questi episodi o condizioni di vita del passato continuano a essere presenti nella mente della persona – per esempio, sotto forma di ricordi, paure, previsioni sul futuro, idee su di sé, sugli altri, sul mondo. Ed è su questi elementi psicologici presenti che interviene la psicoterapia cognitiva e comportamentale.


Atteggiamento del terapeuta verso il paziente


Anche se ognuno ha un suo personale modo di fare e sue convinzioni circa l’atteggiamento più opportuno per ogni cliente specifico, in generale nell’atteggiamento dello psicoterapeuta cognitivo comportamentale si possono individuare alcune costanti:

  • Il terapeuta tratta il paziente come un esperto del suo problema e considera se stesso come un esperto dei percorsi di cambiamento e di soluzione dei problemi psicologici. Fra i due deve nascere un rapporto di collaborazione reciproca. Il terapeuta è come una guida alpina che accompagna uno scalatore. Conosce le varie vie che portano alla meta e ha già seguito vie diverse con persone diverse. Sa quale via è alla portata di un certo scalatore, nella misura in cui quest’ultimo ha descritto accuratamente o ha permesso di osservare i suoi punti di forza e i suoi punti deboli. Sa quali sono le probabili reazioni e difficoltà che gli scalatori incontrano lungo le vie. Conosce i punti più difficili del percorso e aiuta ad affrontarli con suggerimenti pratici e aiuto morale. Vede dove si trova lo scalatore, quanta strada c’è ancora da fare e che cosa lo aspetta. Ma non può in alcun modo sostituirsi allo scalatore: dev’essere quest’ultimo ad arrampicarsi muovendo faticosamente il suo corpo.
  • Il terapeuta tratta ogni paziente come una persona unica e differente dalle altre. Accetta le eventuali differenze rispetto al paziente – per esempio, sul piano delle convinzioni, dell’ideologia, della cultura, della fede religiosa o dell’orientamento etero- o omosessuale –, si dimostra rispettoso, non dà giudizi e non interviene su nessuno di questi aspetti – a meno che ciò non faccia parte di un progetto concordato esplicitamente con il cliente. Ascolta attentamente tutto ciò che il cliente dice e cerca di cogliere nel modo più profondo e autentico tutti i suoi bisogni e i risvolti psicologici e umani delle sue vicende. Manifesta la sua comprensione e la sua solidarietà (se realmente comprende e si sente solidale).
  • Il terapeuta ha un ruolo attivo, nel senso che oltre ad ascoltare, pone molte domande, propone e cambia gli argomenti di conversazione, dà spiegazioni e suggerimenti e può parlare di sé e di altre persone. È attivo anche nel senso che si adopera attivamente perché il paziente migliori la sua situazione, invece di aspettare che il paziente cambi da sé ascoltandosi mentre parla.
  • In generale, terapeuta e paziente stanno seduti uno di fronte all’altro o uno acanto all’altro come in una normale conversazione. Una delle poche eccezioni è l’insegnamento di una procedura di rilassamento (per esempio, training autogeno, rilassamento muscolare profondo o ipnosi), che può richiedere, anche se non necessariamente, che il paziente si sdrai o si sieda comodamente su una poltrona.


Conclusione della terapia


In linea di massima la terapia si conclude quando paziente e terapeuta giudicano soddisfacenti i risultati raggiunti. In genere gli obiettivi vengono concordati con il paziente e consistono nel miglioramento significativo o nella soluzione di una situazione psicologica o di vita che arreca sofferenza al paziente o alle persone a lui care – per esempio, non sentirsi più depressi, non avere più paura di una certa cosa, provare meno ansia, vincere la timidezza, non sentirsi in tensione sul lavoro, riuscire a studiare con profitto, ridurre i litigi con il partner, avere rapporti sessuali soddisfacenti e via dicendo. In ogni caso, parte della terapia consiste nel preparare la persona ad affrontare efficacemente altri problemi simili qualora si dovessero ripresentare e nel migliorare in generale la capacità di risolvere autonomamente le difficoltà psicologiche e relazionali della vita. Spesso l’ultima fase della psicoterapia è dedicata alla prevenzione delle ricadute: come affrontare le situazioni difficili che si ripresenteranno e fare in modo che il problema non ricompaia.


Durata della terapia


La psicoterapia cognitivo comportamentale ha una durata limitata. Normalmente non dura per anni e anni. Benché sia impossibile fare previsioni che valgano per ogni persona, per ogni problema e per ogni incontro fra paziente e terapeuta, gran parte dei più frequenti problemi psicologici (per esempio, disturbi d’ansia e depressione) possono essere risolti o migliorati nell’arco di pochi mesi. Dopo aver valutato accuratamente i problemi e la situazione del cliente, il terapeuta fissa con il cliente gli obiettivi della terapia ed è in grado di stimarne approssimativamente la durata.


Può accadere che nel corso della terapia si concordino obiettivi nuovi. In questo caso la durata si modifica.


Chi partecipa alla terapia


La psicoterapia cognitivo comportamentale si svolge in forma individuale (paziente e terapeuta), di coppia o di gruppo. Nella terapia individuale e di coppia, in particolare, possono esserci delle sedute a cui partecipano solo o anche altre persone che hanno un ruolo importante nel problema del paziente o della coppia: per esempio, alcuni familiari. Il coinvolgimento di altre persone viene concordato con il paziente o la coppia. I familiari e le altre persone significative per la persona o per la coppia in terapia possono dare al terapeuta informazioni utilissime per comprendere e risolvere i problemi; inoltre, possono partecipare alla terapia facilitando la soluzione dei problemi con il loro contributo, per esempio, modificando il loro atteggiamento verso una certa persona, modificando certe loro convinzioni, facendo o non facendo certe cose indicate dal terapeuta.


Dove si svolge la terapia


Le sedute si svolgono perlopiù nello studio del terapeuta. In certi casi, a seconda del problema del paziente e della disponibilità del terapeuta, alcune fasi della terapia possono richiedere che il terapeuta accompagni il paziente in certi posti per osservare dal vero come e dove si svolgono certi eventi che per il paziente costituiscono un problema, oppure per sostenere e guidare il paziente mentre affronta alcune situazioni difficili – per esempio, nel caso di certe fobie, il terapeuta sta vicino al paziente mentre questi prova ad affrontare concretamente ciò che teme. A seconda delle esigenze del paziente e della terapia possono esserci contatti telefonici, epistolari, via Internet, ecc.


Frequenza degli incontri


Le sedute hanno in genere una cadenza settimanale, ma, a seconda del caso specifico e della fase della terapia in cui ci si trova, possono occasionalmente diventare più frequenti o diradarsi. Spesso nella fase conclusiva della terapia si diradano progressivamente. In ogni caso la frequenza degli incontri è abbastanza flessibile e tiene conto delle specifiche esigenze del paziente.


L’efficacia della terapia cognitiva e comportamentale


Gli psicologi e gli psicoterapeuti cognitivo comportamentali si sono sempre preoccupati di dimostrare scientificamente l’efficacia dei loro metodi di intervento. Sono stati condotti moltissimi studi ed esperimenti in cui questa forma di psicoterapia è stata confrontata con gli effetti di altre forme di psicoterapia, del semplice passare del tempo, di varie forme di biblioterapia, di psicofarmaci e di trattamenti placebo, o di altre esperienze formative o correttive. È impossibile sintetizzare qui questi dati, ma ciò che emerge è una notevole efficacia in un gran numero di disturbi psichiatrici e di altre forme di sofferenza psicologica e psicosomatica. Un elenco incompleto delle condizioni trattate con successo comprende: gli effetti dello stress, la depressione, l’ansia, le fobie, i disturbi ossessivo-compulsivi, gli attacchi di panico, l’anoressia e la bulimia nervosa, le disfunzioni sessuali e i problemi di coppia, l’alcolismo e le dipendenze. In molti casi – per esempio, in certe forme di depressione e nel disturbo da attacchi di panico con agorafobia – la terapia cognitivo comportamentale si dimostra più efficace del trattamento con psicofarmaci o con altre forme di psicoterapia. In ogni caso, il successo di ogni terapia dipende da una complessa serie di fattori, fra i quali le caratteristiche del paziente e del terapeuta, il tipo e la gravità del disturbo, la possibilità di modificare le condizioni oggettive di stress.


Testo tratto da G. Lo Iacono, Come cercare aiuto psicologico (e perché), Edizioni Erickson, Trento 2001. © G. Lo Iacono, 2005


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