Nel pianto per il defunto



Nel pianto per il defunto ci si prende una pausa dalla frenesia, ci si riposa, e si sfoga tutta la pena che si prova per se stessi e per quegli altri disgraziati che come noi hanno penato tutta la vita. Ci si commisera. 

Ci si immagina il dolore dell'altro, e siccome non si è mai capaci di immaginare un dolore che non si è provato, ci si affligge del dolore proprio. 

Ci si danno l'occasione e il tempo per lasciarsi pervadere e scuotere dallo sbigottimento...

...per l'essere e per il non essere più

...per il mistero della vita, che organizza e anima la materia per poi abbandonarla

...per la vertigine del tempo che passa – i cambiamenti che avvengono inattesi e per quelli che avvengono nei tempi lunghi

...per il vedere trasformare sé, gli altri i luoghi eppure sentire che tutto è ancora inalterato

...per il tremendo, eterno divario tra come viviamo le cose nella nostra soggettività e come esse inesorabilmente in qualche modo e da qualche parte sono, a prescindere da tutti

...per la difficoltà di distinguere ciò che conta da ciò che è vano e meschino, e per il non poter fare alcunché al fine di dedicarsi solo a ciò che conta, quindi in un certo senso non imparare una delle lezioni più importanti

...per il non riuscire in definitiva a farsene niente della consapevolezza della morte, di cui spesso gli intellettuali vanno tanto fieri considerandola una facoltà che eleva l'uomo al di sopra degli altri animali

...per il non saper vivere “bene”, non sapere nemmeno che cosa ciò significhi, e il presagire che possa voler dire semplicemente “godi quando puoi e più che puoi” per una banalità tautologica come “ha vissuto meglio chi ha vissuto più a lungo contento” – e sentirsi stupidi per essersi tanto arrovellati per un problema che saprebbe risolvere meglio il più semplice degli animali, che, anzi, il problema non lo vederebbe nemmeno, e l'essere invece noi costretti, e magari per istruzione essere andati fieri, di porci questioni alte, che tuttavia capiamo anche essere “nevrosi”; e poi sentirsi in colpa per non essere stati semplicemente capaci di godere di quanto gli altri intorno sembravano godere; doppio scorno con infelicità e colpa – e il sapere al contempo quanto è limitata la nostra capacità di avere a mente ampi archi temporali, cosicché una vita vissuta nella sofferenza o nella gioia può essere dimenticata totalmente nei minuti in cui si prova uno stato d'animo opposto, cosicché una vita vissuta licenziosamente assecondando ogni inclinazione al piacere può non servire a soffrire meno in punto di morte, quando una persona potrebbe sì dirsi “me ne vado appagato, ho vissuto tanto e pienamente” ma potrebbe anche dire il contrario “voglio ancora di questi diletti” oppure “a che sono valsi tanti piaceri se ora sto così e me ne vado?”. 

Nel pianto “per il morto” lo spirito del superstite urla il suo bisogno di liberarsi dal prima e dal dopo, dalle distanze, dal corpo e dalla materia, dalle parole e dai pensieri, dalla logica e dalle regole, dalle emozioni, per espandersi e farsi puro. 

Il gonfiore del pianto che cresce nel petto è lo spirito che preme per uscire. 


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