Sul coraggio di parlare onestamente a proprio nome


Sto leggendo Sulla vita di Lev Tolstoj. Ora questo libro risponde a forti interessi personali e professionali poiché, in aperta polemica con la scienza dell’epoca (1886-1887), l’autore espone una teoria su chi, o che cosa, sia in definitiva ciascuno di noi e che fine farà con la disgregazione fisica del suo corpo.

Trovo che Tolstoj costruisca alcune sue argomentazioni su affermazioni smentite dai fatti. In questo non vedo nulla di strano: posso essere io lettore a fraintendere qualche frase, o forse lui è superato, nel senso che è passato un secolo e mezzo da quando scrisse. Però mi pare di scorgere in alcune sue affermazioni perentorie un disagio che io stesso provo quando scrivo, e che provo ancora più forte quando va a finire che non scrivo. Penso che si tratti di un disagio che ha a che fare con il mettersi in mostra.


Prendo una di queste affermazioni a caso, l’ultima che ho letto. Ci sono nel testo molte altre generalizzazioni simili che vanno a fondare l’edificio argomentativo e la solidità delle tesi finali o più significative, tipo “la morte non esiste” o “l’io esiste fuori dallo spazio e dal tempo”:


Se l'uomo non ha paura di addormentarsi, sebbene l'annientamento della coscienza sia esattamente uguale a quello della morte, non è perché abbia dedotto che, se si è addormentato e risvegliato tante volte, si sveglierà di nuovo (deduzione peraltro sbagliata: può svegliarsi mille volte e non svegliarsi la milleunesima): nessuno fa mai questo ragionamento, né questo ragionamento potrebbe tranquillizzarlo; ma l'uomo sa che il suo vero io vive fuori dal tempo, e che perciò la cessazione della coscienza che gli si manifesta nel tempo non può compromettere la sua vita (p. 194).


Tralasciando alcune obiezioni (per es., relativamente a questo specifico brano: se l’autore non ha mai provato l’annientamento della coscienza conseguente alla morte - e nessuno glielo ha mai descritto - come fa a dire che è "esattamente uguale a quello del sonno"? O anche: conosco persone che hanno avuto paura di addormentarsi temendo la perdita della coscienza che accompagna il sonno), la frase che mi colpisce ora è: “nessuno fa mai questo ragionamento”.


Che ne sa Tolstoj? Ha conosciuto tutti gli uomini di tutte le epoche?


Non è un caso isolato. Tolstoj sembra pretendere di parlare a nome di tutti gli uomini. Qualche riga più sotto, per esempio:


L'uomo non teme i mutamenti del suo corpo e non solo non ne inorridisce, ma molto spesso vorrebbe solo accelerarli, desidera crescere, diventare adulto, guarire (ibidem).


Sorvolando sul fatto che quando si invecchia, in genere, non si è affatto contenti dei mutamenti del proprio corpo - anzi, molti fanno di tutto per cercare di trovarci del positivo e per continuare a essere contenti di vivere nonostante quei mutamenti - di nuovo l’autore parla a nome di tutti gli uomini (dove nella categoria di uomo rientra ovviamente anche quella di donna, non binario eccetera - si parla di “essere umano”). 


Per fare un ultimo esempio, all’inizio del libro l’autore parla di stragrandi maggioranze di persone alle quali attribuisce di volta in volta esperienze apparentemente incompatibili.


Non credo che alla base di queste generalizzazioni, peraltro false, ci sia solo il desiderio di avere ragione, cioè di trascurare i fatti che contraddicono le proprie tesi. 


Oggi ci vedo anche la fatica di parlare a nome proprio


Vorrei fare su questo punto qualche piccolissima riflessione poco sistematica.


Sembra troppo poco dire “a me pare che”. O più onestamente, in un contesto in cui si ragiona sulla morte propria e dei propri cari e si arriva a dire che la morte non esiste affatto, “mi piacerebbe credere che”. In un blog è facile. In un libro stampato alla fine dell’Ottocento (e poi censurato!) probabilmente era più difficile.


La scrittura è anche un momento di esibizione. È mettersi al centro dell’attenzione. E ogni autore rivela al lettore attento, con la sua scrittura, a quali condizioni, con quali scopi, con quali speranze e in che modo sceglie di impegnare la sua attenzione. 


C’è qualcuno che prima di parlare o di scrivere vuole essere ragionevolmente certo di avere qualcosa da dire; invece tanta, tanta gente, oggi direi la maggior parte, ha ben poco da dire, e intende la scrittura come una specie di gioco con le parole, che potrebbe essere un po’ simile alla musica se non fosse che nel prodotto della loro scrittura non c’è nulla di musicale; a loro piace sentire il suono di parole accostate senza avere cura del significato o della loro corrispondenza ai fatti o all’esperienza di qualcuno. Quanti sedicenti poeti e giornalisti in cui ho avuto la sfortuna di imbattermi fanno così! (Non è certo il caso di Tolstoj, maestro ineguagliabile dell’analisi e del racconto dell’anima e delle vicende umane!)


Qualcuno sembra esaltarsi per il fatto di avere conosciuto una parola o un concetto nuovo e non vede l’ora di mostrare agli altri, scrivendo, che lui sa! (Anche qui, non ci sarebbe bisogno dirlo, Tolstoj non c’entra affatto.)


Traduco molti libri scritti da persone che non sanno assolutamente nulla di tante cose di cui parlano - libri che nella mia ingenuità giudicherei impubblicabili - e che spaziano, nella loro voglia di dire senza sapere, dalla biologia, alla fisica, all’astronomia, alla psicologia, alla politica ecc. Mi viene da pensare che questi autori nella loro immensa ignoranza credano che gli altri siano ancora più ignoranti di loro - che almeno un articolo su Internet l’hanno letto fino in fondo vincendo eroicamente difficoltà di ogni genere.


Torno a Tolstoj. Per una persona intellettualmente onesta, parlare "solo" a nome proprio in un saggio come Sulla vita sarebbe troppo poco. Occorre sapere o perlomeno dare l'impressione di sapere - come si fa il più delle volte con citazioni a vanvera negli articoli di psicologia che ambiscono a essere scientifici. E allora è facile cedere alla tendenza a dare un'idea esagerata di ciò che si sa e di quanto in qualche modo è stato controllato o verificato. Credo che Tolstoj abbia esaminato a fondo sé stesso e che ci voglia raccontare le conclusioni a cui è arrivato facendo questo e leggendo una gran quantità di testi di argomento religioso e filosofico.


Questo mi porta ad accennare a un mio disagio. Sento un contrasto stridente tra l’uso delle parole per raccontare una verità, anche soggettiva, o per scoprirla insieme ad altri - in un confronto tra persone che cercano la verità e si danno da fare per rimuovere anche in sé stessi ogni genere di ostacoli (perlopiù psicodinamici e cognitivi) che potrebbero sviare o ostacolare quella ricerca - e, dall’altro lato, l’uso delle parole per altri scopi, nella migliore delle ipotesi per avere ragione o peggio ancora perché si è alla cieca ricerca di denaro e potere, a prescindere da quanto quelle parole veicolino una qualche verità, perlomeno soggettiva. 


Io ho bisogno di verità, e in questo mi sento piuttosto solo perché vedo che anche tra i grandi saggi e pensatori molti fattori ostacolano la scoperta e la divulgazione di parole vere.


Trovo poi davvero patetico e sconcertante l’uso delle parole per mettersi in mostra raccontando una verità soggettiva che è falsa, come avviene in certi romanzi che mi è accaduto di leggere, in cui si fa solo il minimo (o anche meno) per nascondere il fatto che si tratta di autobiografia e per romanzarla si attribuiscono a sé stessi doti che nella realtà scarseggiano penosamente - tra le quali, paradosso dei paradossi, c’è quella di essere persone straordinariamente colte, intelligenti, interessanti. Questi romanzi mi paiono simili a reality show, per la banalità di ciò che viene messo in mostra e per il fatto che di reality c’è poco e niente. Anzi forse i reality ritraggono spietatamente, e contribuiscono a creare!, la realtà di persone che non hanno nessun interesse per qualche forma di verità. 


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