Che vuol dire essere se stessi?



Sentiamo dire che Tizio non è “se stesso”, o esortare Caio a “essere se stesso”. Sentiamo gli psicologi junghiani parlare della “ricerca di sé” o del “diventare se stessi”, oppure Kierkegaard parlare del potere, o non potere, essere se stessi o altro che se stessi. Inoltre può capitare di sentirsi o non sentirsi se stessi. Di sentirsi falsi o degli impostori.


Ma che vuole dire veramente essere se stessi?


Si potrebbero dare risposte diverse a seconda che si adotti:


  1. Una prospettiva esterna in terza persona, oggettiva, scientifica, in cui si giudica se un’altra persona è o non è se stessa. Su questo piano si può parlare solo di frequenza di comportamenti osservabili e a prima vista il problema non esiterebbe nemmeno dato che tutto ciò che fa Giovanna è da Giovanna per il semplice motivo che l’ha fatto lei. Ci sono solo comportamenti tipici (frequenti) e atipici (infrequenti) con le loro eventuali regolarità e concomitanze.
  2. Una prospettiva soggettiva in prima persona, in cui si parla del proprio essere o sentirsi o diventare se stessi. Da questa prospettiva si possono spiegare le espressioni sentirsi (o non sentirsi) se stessi.
  3. Una prospettiva empatica, in cui si parla di un’altra persona ma si va oltre il suo comportamento manifesto e si presume di sapere che cosa succede nella sua esperienza soggettiva, paragonandola con la propria in circostanze simili (ammesso e non concesso che l’empatia non sia almeno in parte una capacità innata!).


“Tizio non è se stesso”; che intendiamo in questo caso?


“Oggi Giovanna non era lei. Attaccava discorso con tutti con aria sicura ed esprimeva un’opinione su qualunque argomento”. Mentre in genere è una persona riservata, che parla solo se interrogata e sembra avere opinioni sue solo su pochi argomenti che la riguardano personalmente. Qui “non era lei” vuol dire che manifestava un comportamento inaspettato che non rispecchiava o andava contro un suo modo di fare abituale. Non si tratta del fatto che ha compiuto una singola azione inaspettata, ma che ha rivelato con una serie di azioni un modo di essere diverso da quello noto a me che la osservo. 


Qui sorge una domanda: che differenza c’è tra modo di fare e modo di essere? Provo a dare una risposta. Se dico modo di essere, mi riferisco a certe costanti che rivelano aspetti della sua natura profonda. Ossia il suo modo consueto di porsi verso gli altri, di rifuggire in società certe sensazioni che non le piacciono, i suoi interessi che la portano a conoscere solo un certo genere specifico di cose (la psicologia e le persone che incontra, per esempio) trascurando tutto il resto. Forse si potrebbe dire con Tolstoj il suo modo rapportarsi con sé, con gli altri e con le cose. Una persona potrebbe avere un modo di fare inconsueto che tuttavia è coerente con il suo modo di essere noto all’osservatore. Per esempio, pur dimostrando di non gradire la presenza di troppe persone, a una festa a cui è andata suo malgrado - rivela nervosismo aggiustandosi in continuazione i capelli e stando seduta sul bordo della sedia in una posizione tesa, tutta piegata da una parte, come fa quando è in imbarazzo - oggi risponde seria e con affermazioni fattuali a chi le rivolge la parola, mentre in genere ha un sorriso ampio e si limita a manifestare partecipazione emotiva e interesse. Se ha questo modo di fare, forse è arrabbiata oltre che a disagio. Questo potrebbe spiegare il suo modo di fare. Che altrimenti non sarebbe da lei.


In definitiva modo di essere e modo di fare, nel linguaggio dell’osservatore esterno, si riferiscono alla stessa cosa: comportamento inconsueto. Ma quando si usa l’espressione modo di essere si presumere di cogliere, nelle regolarità del comportamento altrui, la sua essenza. Come se un’essenza esistesse. (E non è affatto detto che questa essenza ci sia.) E mentre scrivo mi sembra grossomodo di poter dare ragione a Tolstoj (Sulla vita) quando dice che l’essenza di una persona è il suo particolare modo di rapportarsi alle cose, in termini di ciò che piace o non piace. (Qui c’è in gioco l’empatia degli osservatori perché non sarebbe possibile vedere tanto rapidamente e facilmente una coerenza nell’infinità di comportamenti di Giovanna se non si mettesse nei suoi panni per sentire ciò che presumibilmente sente lei - e non sarebbe possibile che tanti osservatori arrivassero alle stesse conclusioni)


Per spiegare il fatto che Giovanna non è stata se stessa, chiamiamo in causa impedimenti o incentivi esterni o interni. Per esempio, non era libera di esprimersi (esterni) o non stava bene, o aveva in mente altro, o si è comportata così per ottenere un certo risultato che le stava a cuore e via dicendo.


Può darsi il caso che io faccia notare a Giovanna che a quella festa non mi sembrava lei. Lei potrebbe in teoria riconoscere che in effetti ha agito su di lei un fattore interno o esterno che la ostacolava o la facilitava in modo tale da impedirla nel comportamento consueto o da indurla a esprimere un comportamento diverso. Ma potrebbe anche dire di non essersi sentita diversa dal solito. (Potrebbe dirlo in buona fede oppure no, il che non è molto rilevante dato che non si è sempre consapevoli di ciò che si fa, né si agisce sempre in modo deliberato e intenzionale.) Nel secondo caso si può dire che Giovanna a quella festa non sembrava lei, il suo comportamento non era da lei, eppure si sentiva se stessa


Tra parentesi, conoscendo Giovanna, potrei dire che il fatto di non notare nulla di inconsueto nel proprio comportamento in una data circostanza sarebbe proprio da lei, dato che non le piace affatto che qualcuno la osservi e pretenda di sapere qualcosa di lei; pretende che gli altri non deducano nulla del suo mondo interiore a partire dal non verbale e dal paraverbale, e se invece lo fanno si mostra irritata, nega e si chiude a riccio. 


Se poi questa essenza personale “esista” o meno, non è un problema da poco per me che vorrei capire esattamente che significa essere se stessi. Potrei liquidare la questione del significato rifacendomi a Wittgenstein (Ricerche filosofiche) e dicendo che il senso è nell’uso - come un po’ sto facendo in queste riflessioni, dove distinguo un uso in prima persona e un uso in terza persona dell’espressione “essere, sentirsi, diventare se stessi”. 



Scoprire/diventare se stessi: riconoscere, legittimare e dare più spazio a certe parti di sé, come gusti, opinioni, emozioni, intenzioni e piani


Se parlo del comportamento di Giovanna a una festa e dico che non era da lei è un conto, ma se parla Karen Horney o un altro psicologo qualsiasi, che usano concetti come “falso sé” definendoli come un’alienazione dal proprio “sé autentico”, senza ulteriori approfondimenti o analisi critiche del concetto di vero sé o sé autentico - ciò di cui stiamo parlando - l’uso dell’espressione “non era lei” è concettualmente più problematico. Ed è su questo che in definitiva vorrei fare chiarezza, perché il concetto di sé o di personalità o di Io a cui questi autori fanno riferimento è in definitiva quello del linguaggio comune. Se la nevrosi, come afferma Karen Horney (Nevrosi e sviluppo della personalità), è il disperato tentativo di aderire a un sé idealizzato nella fuga da un radicale senso di inadeguatezza e insicurezza - dovuto a sua volta a difetti nelle cure genitoriali e nelle risposte della società al bambino in crescita - si pone ii problema di che cosa sia questo sé che il nevrotico per guarire dovrebbe “semplicemente” conoscere ed esprimere.


È impossibile affrontare un discorso del genere dal punto di vista della prospettiva esterna, oggettiva, scientifica, in cui si giudica se un’altra persona è o non è se stessa sulla base delle regolarità del comportamento. Psicologi come la Horney fanno riferimento fortemente a ciò che può essere conosciuto solo in sé, o empaticamente nell’altro. 


L’aspirazione a dare agli altri e a se stessi una buona immagine di sé - con sforzi più o meno grandi - non fa forse parte di ognuno di noi? Certo, la Horney risponderebbe che la differenza tra personalità normale e nevrotica non è qualitativa, ma quantitativa. O, se vogliamo, nel nevrotico quella che chiamo “aspirazione” non è solo un’aspirazione, ma una necessità irrinunciabile. È un dovere. Non c’è scelta, o c’è un margine di scelta minimo; non c’è flessibilità. 

Probabilmente tornare al proprio sé autentico - o semplicemente accettare di essere se stessi - significa riconoscere l’irrazionalità, la fatica e il disagio dovuti al tentativo di essere (fare) ostinatamente, pericolosamente, nocivamente o dolorosamente in un certo modo tra i vari possibili e, in un atto di fedeltà alla propria esperienza, riconoscere in sé e intorno a se tutto ciò che contrasta con questo disperato tentativo, e accettarlo e assecondarlo per vivere in definitiva meglio, in modo più facile, armonioso e piacevole.. 



“Non mi sento me stesso”; che significa?


Qui siamo ovviamente nella pura soggettività: c’è una persona che si percepisce dall’interno e che dà un giudizio (più o meno onesto, lucido e consapevole) di discordanza tra un episodio di sé e una norma di sé. Provo a indicare due diverse accezioni del non sentirsi se stessi.


Primo caso. “In questa relazione o con queste persone non mi sento me stesso” o “in questo ruolo o in questi panni (per es., di lavoratore, di genitore, di coniuge ecc.) non mi sento me stesso” può voler dire che mi sento costretto a una parte che non riconosco (o non riconosco più) come “mia”, che “mi è estranea”, mi imbarazza, “non mi viene naturale”, mi costa fatica e non mi permette di esprimermi. Mi dà irrequietezza, mi infastidisce, mi opprime. Qui mi sembra di “non vivere”, la situazione mi fa passare la voglia di vivere; perdo di energia, di creatività, di spontaneità, di speranza. In questa situazione ci sono obblighi imposti dall’esterno e/o autoimposti. Mi sento in gabbia, prigioniero. In questo ruolo, in questa relazione, in questo compito, in questa parte so che se mi comportassi “come mi viene”, andrei incontro a problemi che vorrei evitare: disapprovazione, scenate, punizioni, perdita del reddito… E così devo stingere i denti e tenere duro. 


Credo che per Kierkegaard (La malattia mortale) questo sia l’essere schiacciati dalla necessità, l’essere privi di possibilità. Il non sentirsi se stessi, in questo genere di situazioni, è non poter fare ciò che si vorrebbe, piacerebbe, verrebbe spontaneo; manifestare opinioni e commenti, manifestare intenzioni, manifestare stati d’animo; dire certe cose, fare certe scelte; impostare le relazioni in modo diverso; avere relazioni alternative… 


Come reazione a una situazione di questo tipo, si può finalmente cercare di diventare se stessi, nel senso di scegliere una relazione, un contesto sociale, un lavoro, un ruolo, un incarico più compatibile con i propri gusti, opinioni, impulsi, desideri e piani, in sintesi più facile e gradito. Questo “diventare se stessi” può essere il frutto o l’esito di una ricerca o uno studio volto a trovare o scoprire se stessi, ovvero quei “gusti, opinioni, impulsi, desideri e piani”.


In positivo, sentirsi “liberi di essere se stessi” significa quindi non sentire la penosa necessità di censurarsi in una relazione o in un ruolo. Poter dire e fare ciò che viene da dire e fare, senza temerne le conseguenze o, addirittura, se c’è un affinità, incontrando l’approvazione e la simpatia dell’altro o altri riconoscimenti esterni e gratificazioni. La censura porta alla non accettazione di sé, o perlomeno al dubbio sul valore di ciò che va censurato, e all’autoimplosione o al contrario a sani moti di ribellione.


Secondo caso. “Non mi sento me stesso” in un’accezione diversa può voler dire “non mi riconosco, non è da me”. “Mi sorprendo di me; in genere non faccio così”. “Mi sorprendo di me; in genere riesco/non riesco a fare questo genere di cose”. “Strano che questo mi piaccia, avrei scommesso di no perché in genere non mi piacciono le cose di questo tipo, o perché immaginavo che non mi piacesse”. “Oggi ho una strana sensazione…” come per esempio un senso di irrealtà, una straordinaria fiducia o mancanza di fiducia in me, un senso di debolezza, confusione di idee o idee diverse dal solito, una rabbia incomprensibile verso tutto e tutti, un senso di comunione con l’universo, un’improvvisa chiarezza su ogni cosa, un senso di estraneità verso tutto ciò che finora mi era familiare. Oppure “ho colto in me un desiderio, un’opinione o un’intenzione divergente” o addirittura “nettamente contraria a ciò che ho desiderato, pensato, voluto finora o negli ultimi tempi”. Ciò che percepisco come “non me stesso” è qualcosa di incoerente con ciò che io conosco di me stesso. Dal non riconoscersi si può sconfinare nell’essere delusi di sé, quando questo “non essere se stessi” è “non corrispondere a un’immagine di sé” privata e/o pubblica che ci è gradita o perfino indispensabile; e allora si hanno opinioni, impulsi, desideri, emozioni, intenzioni che non si vorrebbero avere, fenomeno del tutto comune (per fare l’esempio più facile, si pensi a tutto ciò che rivela “debolezza” agli occhi propri o degli “altri”: paura, debolezza, indecisione, gelosia…).


www.gabrieleloiacono.it