Dare parole alla depressione



Da qualche decennio, appena una persona è ritirata, concentrata su di sé e sulla sua ricerca di senso, dolente nello spirito, si sente chiamare depressa. Odio sentire usare con leggerezza la parola depressione e mi dà ancora più fastidio sentirla usare come se si riferisse a un tratto del carattere. Non posso sentire dire che Pavese era un depresso, Woody Allen è un depresso.


"Depressione" è il nome di una malattia. Ha questa connotazione, essendo una parola da psichiatri. Ma è entrata nel linguaggio comune e viene usata frequentissimamente a sproposito, per non saper decifrare lo spirito delle persone, per il fraintendimento per cui le persone sarebbero solo animali, cervelli o computer - ciò a cui è stato ridotto l'uomo nelle teorie scientifiche che vorrebbero spiegarlo. 


Si affibbia facilmente l'etichetta "depresso" per una penosa mancanza di idee e parole per rapportarsi alla complessità dell'anima umana, alla complessità e alla contraddittorietà dei moti e dei sentimenti propri e altrui, per il mito per cui dovremmo essere sempre felici di trovarci su questo mondo e dovremmo essere socievoli ed entusiasmarci quando sentiamo dire "il futuro è già qui, a portata di mano" e di portafogli, e ci sta già regalando fantastici progressi che miglioreranno la nostra vita permettendoci di ottenere senza fare. Si affibbia quell'etichetta perché si ha fretta, si è concentrati su di sé, non si sa ascoltare. E perché si ha paura di stare con il dolore proprio e altrui. A volte “tu sei depresso” è uno scongiuro.


In questo stato di ignoranza anche la psicologia ha le sue responsabilità. Come riassume bene Morris N. Eagle in Subjective Experience Its Fate in Psychology, Psychoanalysis and Philosophy of Mind, la psicologia (americana!) del secolo scorso, per esempio, non si è occupata della coscienza e dell'esperienza soggettiva. Agli inizi del secolo scorso il comportamentismo non ha voluto, per scelta, studiare quello che succede nella nostra mente, mentre nel cognitivismo, che gli è succeduto immediatamente, ci si è occupati della mente solo in termini di rappresentazioni e computazioni, rinunciando ancora una volta al tentativo di cogliere quello che c'è di specificamente umano negli esseri umani. E allora quella che gli psichiatri ci hanno insegnato a chiamare depressione è stata considerata via via la conseguenza di una “carenza di rinforzi”, o la conseguenza del non potersi sottrarre a rinforzi negativi, o la conseguenza di distorsioni sistematiche o errori nella nostra rappresentazione dell’esperienza.


Nella rappresentazione ideologica dominante della depressione, essa sarebbe una conseguenza di uno squilibrio chimico nel cervello, che riguarda in particolare la serotonina. Qualche lettore ricorderà l’epoca in cui lo psichiatra Cassano compariva regolarmente in televisione a professare questa dottrina. 


A questo proposito vorrei segnalare due libri interessanti. Il primo è un’opera di Horowitz e Wakefield: La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione. Nella presentazione si legge:


È ancora possibile oggi vivere un periodo di tristezza provocata da un grave lutto o da una pesante delusione amorosa senza ritrovarsi immediatamente inquadrati in una diagnosi di depressione, con conseguente intervento di uno specialista e di una terapia farmacologica? La normale tristezza può dunque rimanere distinta dalla depressione? Il drastico cambiamento diagnostico degli ultimi decenni, che sembrava dover fornire alla psichiatria criteri oggettivi di valutazione, ha avuto l'effetto collaterale di qualificare casi di naturale tristezza, dovuta a situazioni di vita, come patologici stati d'animo, con inevitabili errori di medicalizzazione. In questo libro Horwitz e Wakefield inseriscono la tristezza in un quadro evolutivo, illustrando la crisi della cultura attuale che ha comportato il quasi totale disconoscimento di un sentimento umano e la dispensa a piene mani di qualificazione di patologia psichiatrica, la quale a sua volta non viene adeguatamente trattata. Ciò ha fatto della nostra epoca un'autentica "era della depressione”

 



Il secondo è di Irving Kirsch, un autore che ho conosciuto e apprezzato quando nel 1991 conducevo la mia ricerca bibliografica per compilare la mia tesi di laurea sull’effetto placebo.  Il titolo in inglese è divertente: tradotto letteralmente suona I nuovi farmaci dell’imperatore. Riprende I vestiti nuovi dell’imperatore, la fiaba danese di Hans Christian Andersen in cui il re andava in giro nudo credendo di indossare fantastici vestiti. In italiano invece il titolo del libro è stato tradotto I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Dalle pillole della felicità alla cura integrata.


Irving Kirsch è professore di psicologia alla Harvard Medical School. In virtù di una legge statunitense, il Freedom of Information Act, ha potuto accedere agli studi controllati sugli antidepressivi e ha scoperto che sono efficaci quanto o poco più dei placebo, pillole prive di principi attivi. Nel suo libro sostiene che "la depressione non può essere vista come un semplice squilibrio chimico nel cervello", non è vero che nel cervello delle persone depresse succede qualcosa di particolare. 




La teoria dello squilibrio biochimico parte da una constatazione: nel cervello delle persone depresse c’è uno squilibrio di neurotrasmettitori. Sulla base di questa osservazione afferma che tale squilibrio è la causa della depressione. Ma se tale squilibrio biochimico fosse la causa della depressione, in presenza di squilibrio si dovrebbe osservare depressione. In realtà, osserva Kirsch, nelle persone in cui quello squilibrio viene indotto sperimentalmente non si osserva depressione. Per Kirsch quello squilibrio accompagna la depressione, è il suo correlato biochimico, ma non ne è la causa. Per usare un’analogia, la teoria dello squilibrio biochimico equivale a una teoria che sostenga che le lacrime sono la causa della tristezza; in realtà sappiamo tutti che il pianto accompagna la tristezza, non ne è la causa!


Vorrei concludere con alcune righe del filosofo polacco Abraham Joshua Heschel (Chi è l’uomo, p. 27), parole amare ma non per questo "da depresso", che pur essendo state scritte ai primi anni Sessanta sono forse ancora più attuali oggi:


Questa è un'epoca in cui è impossibile meditare sulla situazione umana senza sentire vergogna, angoscia e disgusto, in cui è impossibile provare gioia senza dolore e infinita sofferenza, in cui è impossibile contemplare trionfi personali senza turbamento. Alcuni di noi vivono nella disperazione per quello che l'uomo ha dimostrato di essere … Essere orgogliosi del nostro recente passato significa essere insensibili, così come è da stolti essere ottimisti sul nostro immediato futuro. La massima aspirazione della filosofia illuminista fu quella di emancipare l'umanità dai vincoli del passato. Oggi la nostra aspirazione sembra esser quella di proteggerci dal futuro.

Non è possibile studiare la condizione dell’uomo senza sentirsi turbati dalla sua sorte. Pur essendo biologicamente integro, l'uomo è essenzialmente afflitto da un senso di impotenza, di scontentezza, di inferiorità, di paura. Esteriormente l'homo sapiens può far credere di essere soddisfatto e forte, ma interiormente è povero, bisognoso, vulnerabile, sempre sull'orlo della miseria, incline a soffrire spiritualmente e fisicamente.



© Gabriele Lo Iacono, 2024