Perché non sei il tuo cervello




Con l’affermarsi della moda delle cosiddette neuroscienze ci siamo abituati e pensare che ogni attività, ogni  caratteristica e ogni esperienza umana sia l'effetto di un pattern di attività cerebrale. Com’è spiegato nel libro di Legrenzi e Umiltà, Neuromania, uscito ormai da qualche anno, una spiegazione dell’uomo, anche nei suoi aspetti mentali, con i metodi e i concetti della fisica attrae tanto oggi perché rappresenterebbe il compimento del sogno illuminista di unificazione delle conoscenze intorno al mondo.


Tuttavia pensare di non essere altro che il proprio cervello è palesemente assurdo. Provo ad accennare ad alcuni dei motivi per cui questa frase è insensata ed esprime più che altro una professione di fede verso un certo approccio scientifico.


Un cervello staccato da un corpo non esisterebbe neppure. Il cervello si forma nell’embriogenesi, e poi sviluppa nell’arco della vita, come parte di un corpo.


Al corpo umano - e possiamo presumere a qualsiasi corpo - corrisponde un’esperienza del corpo, un’esperienza del proprio corpo. Ogni cervello sta in un corpo di qualcuno, un corpo associato a un soggetto (potremmo dire un Io, un Sé, una psiche, uno spirito, una coscienza, un essere, una soggettività o potremmo usare altri termini altrettanto vaghi che fanno riferimento al modo in cui ogni animale sente o pensa se stesso “dal di dentro”).


Dopo la nascita dell’animale (uomo compreso) nel cervello entrano informazioni mediante i sensi, ma in tanta parte è il soggetto che usa attivamente i suoi sensi nell’ambito di azioni intenzionali. I sensi, cioè, vengono usati nel contesto di azioni e all’interno di situazioni. Il cervello non sta fermo su un tavolo a registrare quello che c’è nell’ambiente circostante: il soggetto lo tiene in vita e lo porta in giro “a fare cose”, che in gran parte si basano sulla volontà del soggetto, oltre che delle persone circostanti, e sugli accadimenti. Ben presto nella sua vita, il soggetto (in particolare se di razza umana) diventa anche, o forse perlopiù, causa di quello che succede nel suo cervello. Questo avviene non appena il neonato comincia a controllare il movimento e poi, via via, sempre di più. 


Con l’affermarsi della moda delle cosiddette neuroscienze, come ho scritto nell’incipit, ci siamo abituati e pensare che ogni attività, caratteristica o esperienza umana sia conseguenza di un’attività cerebrale. Ogni attività chimica o elettrica nel cervello è inevitabilmente effetto di altre attività chimiche o elettriche nel sistema nervoso, ed è inevitabilmente causa di altre attività chimiche o elettriche nel sistema nervoso, in un processo ininterrotto che comincia con la formazione del sistema nervoso e termina con la morte. Nelle neuroscienze si osservano (o forse più che altro si postulano) grossolane correlazioni: alla tale attività/caratteristica/esperienza umana sembra associarsi nel cervello il tal fenomeno (alla quale affermazione, per onestà e precisione, dovrebbero seguire numerose precisazioni sulla validità generale di tale affermazione!). Ma se io ora alzo un braccio, non è perché il cervello mi fa alzare il braccio, bensì perché io in qualche modo misterioso obbligo il mio cervello ad alzare il braccio. I fenomeni cerebrali e le attività di cui il soggetto è autore avvengono su piani diversi: il soggetto non esisterebbe senza il suo corpo/cervello, ma quello che il soggetto vive o sperimenta soggettivamente non è solo effetto di quello che succede nel suo corpo; lo è solo in una certa misura, che a seconda dei casi può essere più o meno grande. Il corpo/cervello è precondizione per l’esperienza e l’attività del soggetto, ma il soggetto è “impastato” di questo corpo che si colloca su un piano epistemologico diverso e incommensurabile. Quando, per esempio, io “progetto” di scrivere una certa frase, sicuramente questo mio vago “pensare”, questa formulazione e costruzione interiore della frase, ha un corrispettivo nel cervello (come peraltro in altre parti del corpo!), ma è assurdamente e fatalmente riduttivo dire che quel mio pensiero “l’ha formulato il cervello” perché in realtà l’ho formulato io, che sono un soggetto


Allo stato attuale delle conoscenze neuroscientifiche, siamo lontanissimi dal poter vagamente immaginare che cosa succeda nel mio cervello quando io formulo quel pensiero. Ne siamo talmente lontani, che dire che un giorno arriveremo a scoprirlo è un’affermazione completamente infondata, una scommessa campata in aria che rivela una fede - forse una malafede, in qualcuno, come nei ricercatori in campo neuroscientifico (mentre la diffusione di contenuti simili da parte di giornalisti si spiega più in termini di opportunismo, superficialità e ignoranza). 


Se dicessi che quel mio pensiero è un’attività del mio cervello, poi, restando sul piano della descrizione fisica, non potremmo dire altro di interessante a proposito di quel mio pensiero, per descriverlo e per comprenderlo. A meno che non si verifichino in futuro rivoluzioni epistemologiche - che ora non possiamo neppure immaginare e per questo siamo autorizzati a dire che la scommessa è del tutto campata in aria - se un giorno questa assurda scommessa dovesse essere vinta,  stando agli strumenti concettuali che abbiamo a disposizione oggi, sapremo in soldoni soltanto che nella tale zona del cervello certi agenti chimici stanno attivando certi processi elettrici. 


E allora? Come potremo mai usare una nozione del genere per stabilire se il pensiero che volevo scrivere è sensato o no? O per stabilire da dove mi viene quell’idea? O per stabilire se l’ho scritto bene o male? O per risolvere altri problemi o rispondere ad altre domande umane? Per qualunque attività di interesse umano (posso ammettere pochissime eccezioni), sapere che cosa succede nel mio cervello quando ho quel pensiero non ha nessuna utilità o rilevanza. E il discorso non vale solo per un pensiero ma in generale per le attività, le caratteristiche e le esperienze di un soggetto.


Quello che non sento mai dire è che l’attività cerebrale è conseguenza di quello che il soggetto decide, vuole, stabilisce, anche se in modo non sempre pienamente cosciente. Eppure è così ovvio e incontrovertibile! Sono io che decido se alzarmi o stare seduto, se grattarmi la testa, se andare avanti a scrivere o prendermi una pausa, se pensare ora a cosa farò durante le prossime vacanze, se pensare adesso a che ora partire domani, se accettare o no l’invito a cena per venerdì e via così all’infinito. 


Il fatto che a tutte queste attività corrisponda in linea di principio nel mio cervello/corpo un processo fisico non significa affatto che quel principio sia la causa della mia attività. A una causa fisica non può che corrispondere un effetto fisico. Quello che succede nel mio corpo/cervello scorre “parallelamente” a quello che io come soggetto posso decidere liberamente di fare o non fare. È innegabile però che se spontaneamente - o per rispondere più o meno liberamente a una richiesta o necessità esterna, di natura sociale o meno - io decido di alzare un braccio o compiere una qualsiasi altra azione fisica o mentale, sono IO, il soggetto del mio discorso, che “ordino” al corpo di farlo. In che modo? Non lo so. Che cosa sono io? Non sono una cosa, una res extensa. Per il resto è impossibile dirlo in un modo che non ammetta dissensi, che sia completo, che sia definitivo, che sia proprio (come ha affermato A. J. Heschel, “io” è lo pseudonimo per la nostra ignoranza). Posso però dirlo in tanti modi e farmi capire dai miei simili, con analogie e metafore e allusioni, usando il linguaggio e il senso comune più ancora che il linguaggio “scientifico” di qualche disciplina.


Difficile immaginare che qualcuno si consideri veramente un cervello. Un cervello staccato da un corpo vivente può essere tuttalpiù buono da mangiare impanato e fritto, o interessante da osservare o da studiare. Ma non è certo me, né altre persone. Più in generale, è difficile immaginare che qualcuno si consideri veramente un corpo. Nel linguaggio quotidiano alcune frasi si riferiscono a sé come corpo: tutte quelle che parlano di posizioni o movimenti del corpo (“sono seduto, sdraiato”, “ho un braccio alzato”, “ho fatto una capriola”), di collocazioni del corpo nello spazio o rispetto agli oggetti (“Sono a Trento nel mio studio”, “sono stato a Napoli”) o di caratteristiche del corpo (“peso 85Kg, sono ingrassato”, “sono rapido nei movimenti”, ”sollevo 180Kg in panca”, “porto la quinta di reggiseno”). Ma nel discorso comune quello diciamo a proposito di noi ancora più spesso non fa riferimento al nostro corpo. Pensiamo per esempio a frasi che esprimono gusti, preferenze e avversioni, tratti di carattere o personalità, volontà, percezioni, intenzioni o progetti, previsioni o ricordi, sentimenti ed emozioni, atteggiamenti, idee, stati di coscienza, capacità o incapacità, stati delle proprie conoscenze e via dicendo.


Frasi come “Mi domando a che valga vivere”, “Sento che sto usando bene la mia vita”, “Mi sento stimato”, “Mi sento indegno della tua compagnia”, “Mi sento solo in mezzo alla folla” mostrano quanto poco ognuno di noi si consideri un corpo. Sarebbe assurdo all’ultima di queste frasi rispondere: “Impossibile, in mezzo alla folla non sei affatto solo”.



© Gabriele Lo Iacono, 2024

www.gabrieleloiacono.it