Sulla paura della morte e del morire



Sto riflettendo e studiando su questo tema. Potrei aggiungere ogni giorno un tassello. Oggi vorrei proporre 21 piccole note in divenire.



1. Nel pensare la morte, confondiamo la morte con il morire. La morte è lo stato della persona che non è più in vita. Il morire è il processo che ci porta a quello stato; in genere con il morire ci riferiamo agli ultimi momenti e solo il senno di poi ci può dire se avevamo riconosciuto il morire come tale. 

Quanto può durare il morire? Si può dire che Tizio sta morendo da un giorno o due. Ma si può dire che sta morendo da un anno? O da 5 anni?

Inoltre confondiamo la morte propria con la morte altrui: le due cose ci fanno un effetto ben diverso. 



2. Non conosciamo il morire. Non conosciamo lo stato di morte

Possiamo mai sapere di essere in punto di morte? Possiamo riconoscere i nostri ultimi momenti oppure i nostri ultimi giorni? Possiamo temere di essere in punto di morte. Possiamo valutare che è improbabile vivere ancora “a lungo” data la nostra età e il nostro stato di salute. Ma non possiamo sapere di esserci, che è arrivata la nostra ora. Non possono saperlo neppure i medici, che tante volte sbagliano clamorosamente e che, non capisco perché, si ostinano a fare previsioni, che hanno un effetto devastante sul morale del malato e dei parenti. 

Non possiamo riconoscere dentro di noi i segnali della morte imminente perché banalmente non c’è mai capitato di sperimentarli. Possiamo tuttalpiù paragonare quello che ci sta succedendo con quello che è successo a qualcuno che poco dopo è morto.   

Molte persone, io compreso, hanno pensato almeno una volta di essere sul punto di morire nella loro vita, e si sono sbagliate. Quante volte ci siamo sentiti morire e non siamo morti veramente?

Allo stesso modo non possiamo sapere in che consiste l’essere morti. È inutile fare speculazioni al riguardo, come fa Paul Ludwig Landsberg nel libro L’esperienza della morte cercando di dedurre dalla vita qualcosa della morte. 

Come dice Wittgenstein nel Trattato logico-filosofico:


La morte non è un evento della vita. La morte non si può vivere.


La morte non può essere esperita o vissuta in quanto tale, poiché la vita termina con la morte stessa.



3. Il morire in senso stretto comincia con la nascita. Con la nascita, in senso stretto comincia, il conto alla rovescia. La candela comincia a bruciare appena viene accesa. Ma nessuno può sapere di essere in punto di morte.



4. Normalmente diamo per scontato che con la morte una persona perda ogni coscienza di ciò che succede dentro e fuori di sé. Con la morte il nostro corpo comincia rapidamente e decomporsi e, malgrado si abbia ancora voglia di parlare con i propri morti, e lo si faccia, si sa che loro non ci sentono, come non sentono nessun’altra cosa. Se non dessimo per scontato che la morte del corpo comporta la cessazione di ogni sensazione e percezione non richiuderemmo i nostri morti nelle bare, sotto terra o all’interno di fasce e via dicendo. Non li metteremmo nei frigoriferi e non permetteremmo che vengano sottoposti ad autopsie o cremazioni. 

La morte, come afferma Socrate, potrebbe essere una specie di sogno senza sogni. Quasi tutte le notti della nostra vita in qualche momento abbiamo dormito profondamente, perdendo completamente coscienza di qualsiasi cosa. Qualcuno ha subito un’anestesia totale per un intervento chirurgico, e anche in questo caso ha perso completamente coscienza. Se morire fosse perdere la coscienza di qualunque esperienza, sarebbe impossibile immaginare l’esperienza di essere morti e non ha senso parlarne.



5. L’espressione “pace eterna” evoca l’esperienza del sollievo, come “eterno riposo” e simili. Se morire è perdere coscienza di qualunque esperienza, essere morti non dev’essere neppure un sollievo o un riposo. “Smettere di soffrire” è una descrizione più oggettiva: dice che cosa cessa, la sofferenza, e tace di ciò che segue.



6. Se morire è perdere la coscienza di qualunque esperienza, da morti non ci si può pentire o rammaricare di avere vissuto male, né compiacere di avere vissuto bene. Non è nell’esperienza della morte il motivo per cui bisognerebbe vivere una vita buona o avere un comportamento etico in vita.



7. La cosa migliore che si possa fare per prepararsi alla morte, probabilmente, è vivere senza preoccupazioni ora, in questo momento, e abituarsi a distinguere le proiezioni della propria mente e a prenderle non per realtà, ma per quello che sono, cioè pensieri. Così saremo più allenati a non preoccuparci in qualsiasi momento. 

In un appunto del 1916 Wittgenstein afferma: 


Solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è felice. Per la vita nel presente non c’è morte.


A questo proposito è essenziale tutto ciò che è stato scritto sulla pratica della meditazione di consapevolezza, che è uno degli ottuplici sentieri indicati da Gautama Siddhartha, il Budda. La meditazione porta fuori dal tempo… è morte… è contatto con Dio…

E pochi anni più tardi, nella proposizione 6.4311 del Tractatus Wittgenstein scriverà:


La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti.



8. Il giorno della nostra morte potrebbe essere un giorno qualsiasi, non diverso dagli altri. Il pensiero della morte invece è sempre angosciante, finché non si impara ad accettarlo nel modo giusto. Per me è stata importante una vignetta dei Peanuts. Un personaggio dice: " Un giorno dovremo morire". E l'altro ribatte: "Vero, ma tutti gli altri no!".



9. In termini scientifici, oggettivi, forse il pensiero della morte propria o altrui è sempre angosciante perché fa parte di quel pacchetto di istruzioni che abbiamo in dotazione dalla nascita per guardarci dai pericoli, durare, lasciare prole fertile ecc.

Temiamo istintivamente la morte come temiamo gli abissi e i serpenti. 



10. La candela comincia a bruciare appena viene accesa. Ma non è in questi termini che dovremmo pensare la nostra vita. Questa è una visione scientifica, disumana. La nostra esperienza del tempo non corrisponde, è fatta di interruzioni, accelerazioni, rallentamenti, arresti, dilatazioni e più che altro è discontinua, diversamente dalla candela che si accorcia inesorabilmente sempre alla stessa velocità. Dire che la vita è come la candela è un’astrazione e come tante altre astrazioni che riguardano noi, la nostra vita, le altre persone, è gelida e terribile e ci ostacola nella comprensione e nella serenità. Ci dà solo l’illusione di sapere e di capire - un’illusione raggelante.

Ad esempio, scrive Tolstoj (Sulla vita, pp. 90-92):


L’uomo vuole definire la sua vita con la categoria del tempo, così come definisce l'esistenza visibile al di fuori di sé, ma all'improvviso in lui si risveglia una vita che non coincide con il tempo della sua nascita fisica, ed egli non vuole credere che ciò che non si definisce con la categoria del tempo possa essere vita. Ma per quanto cerchi nel tempo un punto che possa considerare l’inizio della sua vita razionale, non lo troverà mai. Nei suoi ricordi non troverà mai quel punto, quell’inizio della coscienza razionale. Gli sembra che la coscienza razionale sia sempre stata in lui. E se anche trova qualcosa di simile all'inizio di questa coscienza, non lo trova nella sua nascita fisica, ma in una sfera che con quella nascita fisica non ha nulla in comune. La sua origine razionale gli appare completamente diversa dalla sua nascita fisica. Interrogandosi sull'origine della sua coscienza razionale, l'uomo non s'immagina mai, in quanto essere razionale, come figlio di suo padre e sua madre e nipote dei suoi nonni, nati nel tal anno: non si percepisce come figlio, ma si sente fuso in un tutto con la coscienza degli esseri razionali più lontani da lui nel tempo e nello spazio, vissuti talvolta millenni prima e all'altro capo del mondo. Nella sua coscienza razionale l'uomo non concepisce neppure un'origine di sé, ma è conscio della propria fusione con altre coscienze razionali, con le quali si compenetra al di fuori del tempo e dello spazio. È proprio questa coscienza razionale risvegliatasi nell'uomo che sembra arrestare quella parvenza di vita che gli uomini smarriti considerano vita: agli uomini smarriti sembra che la loro vita si arresti proprio quando essa si risveglia”.


Questo richiama la “frattura” di cui parla Kierkegaard, quella che si verifica nel proprio essere quando il “taciturno” si trova in lite con se stesso e si dispera per essersi di disperato - per avere rivelato a se stesso la propria debolezza. In quel momento comincia o può cominciare la sua vita spirituale, può avere accesso al suo io/Dio.



11. Nella nostra esperienza del tempo ci sono istanti di eternità, che possono verificarsi anche quando si è vecchi e gravemente malati. La paradossale espressione "istante di eternità", scrive Francois Cheng, traduce proprio questa privilegiata esperienza. 

Così parlò invece Friedrich Nietzsche: 


Posto che diciamo di sì a un unico istante, con ciò abbiamo detto di sì non solo a noi stessi, ma a tutta l’esistenza. Perché nulla sussiste isolatamente, né in noi stessi né nelle cose; e se la nostra anima, come una corda, ha vibrato e risuonato di felicità anche solo una volta, tutte le eternità furono necessarie per determinare quest'unico accadimento - e tutta l'eternità è stata, in quest'unico istante della nostra affermazione, approvata, redenta, giustificata e affermata (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887).


Ma anche a parte questo, in qualche momento di gioia si può perdere l’esperienza del tempo che avanza; il tempo di può fermare e dilatare a dismisura.



12. Seneca scrisse che dobbiamo imparare a morire oltre che a vivere e che tutta la vita è un preparativo a una buona morte. Socrate condannato a morte disse che se un filosofo non affronta la morte con serenità tutto il suo esercizio filosofico è stato vano. 



13. Mai guardare alla propria condizione umana con freddo sguardo scientifico! Uno sguardo che porti a concludere: “Siamo animaletti antropocentrici che per un caso popolano un pianeta in cui si sono verificate particolari condizioni climatiche ecc.”. Tutto questo è vero, da un punto di vista esterno, oggettivo, ma ci fa male e non è affatto l'unico modo di pensare l'uomo! Questo tipo di discorsi dev’essere compensato da discorsi di altro tipo che parlino al nostro spirito, nell‘accezione di Viktor Frankl. Il rifiuto del discorso religioso - di cui, poco più che bambino, mi sentii orgoglioso, in quanto ebbi coraggio a mettermi contro ciò che mi veniva insegnato dalle autorità - seppur motivato da molti punti di vista è in realtà una mutilazione della propria umanità. Il pensiero scientifico applicato all’esperienza della vita umana è un “omicidio”, nel senso che priva l’uomo di ciò di cui ha bisogno per vivere, ovvero un senso complessivo e trascendente della propria esistenza, una speranza, una consolazione, la visione di un destino comune, un discorso a misura d’uomo. L’oggettività ci fa progredire da molti punti di vista, ma per arginare l’angoscia e trovare senso nella nostra vita arriva un momento in cui ci serve invece soggettività, magari condivisa, come avviene nel discorso religioso.

Trovo considerazioni molto simili in Sulla vita di Tolstoj. Che contrappone la vita intesa in senso biologico dagli scienziati con la vita percepita soggettivamente che è ricerca di ciò che fa stare bene, evitamento di ciò che fa stare male e ambizione al bene. Quest’ultima è la vera vita. 



14. Kierkegaard afferma che "la disperazione è anche il primo momento della fede" e che “è la peggiore disgrazia non averla ricevuta” (dalla prefazione).

Nella Malattia mortale l’uomo è una creatura che sintetizza corpo e spirito, è inoltre un rapporto di finito e infinito, di tempo ed eternità, di possibilità e necessità; e questo rapporto si rapporta con se stesso, nel senso che è cosciente di se stesso. Ma in realtà, il rapporto più importante che l’uomo intrattiene è quello con Dio: l’uomo non può e non deve dimenticare di essere creatura divina. 



15. L’immagine della candela raggela anche per altri motivi. Non si può immaginare l’avanzare degli anni pensando solo alla struttura e alle funzioni del corpo, comprese quelle psichiche. Per esempio, nell’esperienza soggettiva del malato e dei famigliari ci sono momenti di peggioramento e momenti di miglioramento o di stasi. Il momento di miglioramento è un momento di felicità pura, anche se è relativo a una condizione grave. Non può essere che così - a meno di non avere una mentalità inutilmente e patologicamente pessimistica che già si sarà manifestata nella gioventù dell’anziano cn le sue conseguenze in termini di ansia e avvilimento, mancanza di vitalità ecc. 



16. Il dolore a cui non si può sfuggire, per quanto riguarda la morte, è quello della morte delle persone care, della perdita del legame con loro. Quello del dolore che si lascia agli altri con la propria morte, recidendo i legami stretti. Anche questo dolore può essere affrontato praticando il non attaccamento, per quanto comporti inevitabilmente passaggi dolorosissimi.



17. L’idea della propria morte si sviluppa secondo un processo che in genere procede dalla morte in terza persona (della persona “qualunque”), alla morte in seconda persona (quella del proprio caro) la quale porta alla concezione della propria morte attraverso l’esperienza della rottura del legame con il proprio caro, con il quale ero in comunione e che per questo porta via una parte di me, destruttura il mio essere (vedi Landsberg, ibidem). Tale dolore può tuttavia portare a una trasformazione molto feconda in sé stessi, tale da mutare radicalmente la visione della propria condizione umana.



18. La prospettiva di dover morire dovrebbe fare un effetto diverso a una persona giovane e sana e a una persona vecchia e malata...



19. L’empatia, questa capacità così preziosa per capire gli altri, rispettarli, andarci d’accordo e aiutarli, va tenuta a bada quando ci si rapporta con persone gravemente malate e si pensa alla morte di una persona deceduta. Poiché non possiamo conoscere la loro condizione, né tanto meno l’esperienza del trapasso, tendiamo, per immedesimarci, a immaginare le nostre esperienze passate più penose, situazioni di solitudine, disperazione, abbandono… In sé e per sé, però, la nostra sofferenza empatica non serve ad alleviare la sofferenza del malato! Può essere utile invece portare aiuto pratico, speranza e buon umore al malato…

Mia madre era malata di tumore ai polmoni. L’aspettavano atroci sofferenze - pensavamo lei e noi - asfissia e dolore. E ogni volta che io pensavo che le sarebbe toccato questo, io immaginavo una penosissima sensazione di solitudine nella sua angoscia. Ora che mia madre è morta, e che quell’agonia non l’è toccata, io provo sollievo da questo punto di vista: ho smesso di soffrire empaticamente per lei.



20 Il filosofo indiano J. Krishnamurti ha sostenuto ripetutamente, come Tolstoj (Sulla vita, p.180), e forse anche l’induismo e Schopenhauer, ma andrò a verificare (vedi Sulla vita, p. 17), che la morte così come la immaginiamo noi non esiste. La paura della morte deriva dalla paura del cambiamento. I suoi sgomenti sono riassunti nel libro Sul vivere e sul morire (Astrolabio, 1998).


21. Io penso che se immaginiamo il morire con tristezza è perché ce lo immaginiamo assimilandolo a tante esperienze realmente vissute di distacco da “cose” che ci piacevano. La fine di una vacanza o di un amore estivo. L’esclusione subita da amici o persone care. L’abbandono subito da un amante. La fine di un bel libro o un bel film. La fine malinconica di un’era della propria vita, di un ciclo scolastico. Un cambiamento di città. 

Ma l’esperienza quotidiana della vita propria o della relazione con il morente può diventare tutt’altro che piacevole e allora la morte fisica - come cessazione della coscienza nel morto e come cessazione del rapporto con la persona morta - può anche giungere come un sollievo.

Nell’immaginare la morte io piango angosciato, perché? Cosa ricordo, cosa immagino, cosa temo? Si condensano in un istante vari elementi: il ricordo del dolore che ho provato nel vedere o nel sapere che i miei cari erano malati, dell’orrore che ho provato nel sapere che erano morti, del pianto ai funerali che ho affrontato, dell’angoscia che ho provato quando ho capito di essere mortale e quando mi sono visto invecchiare… Forse è l’emblema di ogni fine, di ogni autunno della vita, di ogni distacco, con lo smarrimento e la malinconia che lascia.



© Gabriele Lo Iacono, 2024

www.gabrieleloiacono.it