Il quotidiano del Trentino “l’Adige” di oggi, giovedì 11 luglio 2024, apre così:
“IL CASO. I recenti casi di escursionisti imprudenti fa [sic] crescere l’allarme. I rifugisti: ‘Colpa dell’alto afflusso e dei social’. Montagna, impennata di soccorsi. Dal 2019 sono aumentati del 35%: nel 2023 hanno toccato quota 1.549”.
E l’articolo che segue comincia con queste parole: “Avventurarsi in montagna, anche a quote sopra i 2.500 m, senza preparazione e attrezzatura adeguate sembra non essere più l’eccezione. Lo testimoniano, oltre ai recenti casi di escursionisti imprudenti salvati in extremis, anche i dati degli interventi del Soccorso alpino che dal 2019 al 2023 sono passati da 1.148 a 1.549 all’anno con un incremento del 35%. Una situazione che spinge il presidente Walter Cainelli a lanciare un appello: ‘In montagna servono preparazione fisica, materiali giusti e sapere valutare il meteo’. Secondo i rifugisti mancano consapevolezza e formazione, ‘colpa dell’afflusso in massa e dei social’”.
Oggi sul sito del quotidiano si leggono anche questi altri titoli.
FUGATTI: «In ferrata senza protezioni, non giocate con la vita»
VIDEO Incredibile a 3 mila metri sul ghiacciaio in sandali infradito
PRESENA Sul ghiacciaio con le infradito, ecco i turisti del «selfie»
FRIULI Con i sandali sul sentiero franato: devono chiamare l’elisoccorso
I NUMERI Gli interventi del Soccorso alpino
Oggi non è una giornata straordinaria. Di soccorsi in montagna ce ne sono in continuazione, un po’ tutto l’anno. E in continuazione ci sono giovani che vengono in Trentino appositamente anche dall’estero per fare BASE jumping e che muoiono lanciandosi dalla cima del monte Brento.
Da quando ho cominciato a scrivere questo libro a oggi, che mi accingo a concluderlo, i reel che vedo su Facebook sono cambiati. Qualche mese fa vedevo tante imprese che avevano come protagonisti in parte atleti preparati e in parte persone che compiono bravate azzardate e che poi finiscono male.
Oggi invece la maggior parte dei video che mi propone l’algoritmo di Facebook ritraggono incidenti occorsi durante la pratica di sport estremi.
Vedere tutte queste persone che si schiantano con il volto o con la testa contro alberi, muri, automobili, contro l’asfalto di una strada, la pietra di un sentiero e via dicendo, mi rende meno sensibile alla loro sofferenza, e suppongo che lo stesso effetto faccia più o meno agli altri se sono sempre più quelli che si avventurano in montagna come se andassero a Disneyland.
Ho visto un ragazzo lanciarsi nel vuoto da un elicottero, in calzoncini e maglietta, senza nessuna protezione, dopo avere bevuto da una lattina. Vedo gente il cui corpo strofina e rotola ad alta velocità contro l’asfalto o la pietra per metri e metri dopo avere subito un forte impatto per una caduta dalla moto o dalla bici durante una bravata – come saltare da un trampolino per decine di metri, volando sopra un casa, magari mollando il manubrio in volo per poi riafferrarlo.
Ormai sembra che la cima dell’Himalaya sia affollata come Rimini d’estate. Raggiungere la vetta delle montagne più alte del mondo sembra quasi una banalità. Vedo questi gravi incidenti in quantità industriale, a getto continuo, e mi viene quasi da pensare:
“Ma guarda, cadere e andare a sbattere a tutta velocità non è poi così male. Il corpo umano alla fine è come quello di un bambolotto di plastica, non vedo sangue, non vedo arti che si spappolano o si staccano”.
Non so che cosa succeda alle ossa degli incidentati. Infatti in nessuno di questi brevissimi video vengono documentate le conseguenze mediche e psicologiche dell’impatto, ma il buon senso dice che devono esserci state delle gravi fratture multiple, spesso menomazioni permanenti.
In alcuni video l’impatto non si vede nemmeno – come nel caso di quel freerider americano che tenta di battere il suo record precedente, lanciandosi con gli sci lungo una parete quasi verticale e pretendendo di saltare da una roccia e di atterrare decine e decine di metri più in basso. Nel video la voce fuori campo e le scritte in sovrimpressione raccontano che il freerider è morto.
Come ci si desensibilizza alla violenza rappresentata nei film e nei cartoni animati, ci si desensibilizza agli incidenti. Anche perché la sofferenza, la menomazione e le conseguenze personali e sociali degli incidenti non vengono documentate. Non viene rappresentata la morte.
Sembra che oggi la cosa più importante sia fare qualcosa di straordinario, spingersi ai limiti delle capacità umane – limiti di forza (si vedono persone a cui si spezzano le ossa sotto bilancieri stracarichi), di equilibrio, di coordinazione, di velocità, di altezza e profondità raggiunte, di caldo, di freddo… di tutto – e che sia importante poi mostrarlo subito sui social agli altri, questa platea senza volto che immaginiamo infinita e affascinata dalle nostre gesta. Siamo nel pieno di un’epidemia di sconsideratezza e brama di gloria.
Per contro, come racconto nelle prossime pagine, nel mondo dell’arrampicata, per guadagnarsi la stima degli altri climber, non bisogna mettersi in situazioni inutilmente pericolose e non bisogna spingersi al limite delle proprie capacità, ma bisogna conservare un margine. Questo buon senso sembra mancare a una quantità crescente di persone. E, come vedremo, qualcuno alimenta questa epidemia con incitamenti del tipo: “Nella tua ricerca di avventura non farti limitare dall’istinto di sopravvivenza”. E il governatore del Trentino oggi ribatte: “Non giocate con la vita”.
Sta succedendo qualcosa di importante. I reel danno dipendenza e li vede chiunque abbia un account su un social. E i reel propongono una sequenza ininterrotta di scene sensazionali, stupefacenti e a volte divertenti che fanno apparire lento, banale e noioso il ritorno alla vita reale, la propria, nel qui e ora. Tra gli effetti che hanno, perlomeno alcuni, c’è quello di indurre i giovani e meno giovani a compiere imprese rischiose, se non francamente autolesionistiche.
Tutto ciò potrebbe rimanere distante dalla mia vita, se non ricevessi ogni giorno nel mio studio di psicoterapeuta persone che praticano l’arrampicata sportiva e l’alpinismo e se non ci fossero nella mia vita dei cari amici che fanno altrettanto. Queste persone negano che ci sia del pericolo in queste attività, se si usa bene l’attrezzatura, si studiano bene le vie, si va con gente fidata, si controlla il meteo e non si fanno cose azzardate. Io invece sono dell’idea che il rischio permanga.
E discutendo con queste persone mi è venuta voglia di chiarirmi le idee, di documentarmi e di spiegare meglio ciò che penso, e ciò che so attraverso la psicologia, a proposito del rischiare la vita per divertirsi – cosa che io stesso ho fatto in gioventù!
Ci tengo a precisare che so di essere un outsider. La mia conoscenza del mondo degli sport estremi è quella di un osservatore esterno, non di una persona che li pratica. Parlo di sport estremi con lo sguardo di uno psicologo, a cui sicuramente mancherà la preziosa conoscenza di prima mano, ma che possiede strumenti di analisi e di interpretazione psicologica che normalmente la persona che li pratica non ha. Nel capitolo terzo riferirò di un importante studio sulla subcultura dell’arrampicata condotto da due istruttori di arrampicata norvegesi che sono anche sociologi.
Il libro è in vendita in tutte le librerie o presso il sito dell'editore: https://www.calzetti-mariucci.it/shop/prodotti/psicologia-degli-sport-estremi-la-vita-nelle-mie-mani
(c) Calzetti e Mariucci, 2024