Riccardo Infante, "Sotto la coperta d’oro"


Questo è un libro di poesia che mi ha smosso qualcosa dentro. Mi ha aperto degli spazi, tra concetti ed esperienze che credevo vicine nella mia mente e, viceversa, ha associato tra loro cose distanti. A partire dal titolo: “Sotto la coperta d’oro”, che inizialmente ha risvegliato in me la noia provata da bambino quando subivo lezioni scolastiche su temi mitologici - e che francamente ha ritardato l’avvio della lettura. In particolare associavo il titolo al vello d’oro. Un oggetto presente nella mitologia greca che si dice avesse il potere di curare ogni ferita o malattia, il manto dorato di Crisomallo, un ariete alato capace di volare. 


La coperta d’oro di Riccardo Infante è questo, ma nella forma di quella specie di carta stagnola che vediamo addosso ai migranti appena sbarcati sulle nostre coste (la coperta isotermica): nel gesto di prima accoglienza, copre il migrante e cura le sue ferite. E subito qui si associano il valore dell’oro con la miseria del migrante atterrito e affamato, l’attualità delle migrazioni sulle nostre coste con l’eternità del mito… E per ogni immagine e ogni concetto si risvegliano nella mente del lettore varie associazioni, tutte “autorizzate” dall’autore di questo testo polisemico!


Nei versi di Riccardo, il migrante africano e asiatico non è lo sventurato da compatire - e tanto meno da condannare e rispedire “a casa sua” o in Albania! - ma è ognuno di noi. Sotto quella coperta d'oro ci siamo tutti. Non perché siamo tutti miserabili - non c’è niente di strappalacrime o di politically correct qui - ma per ragioni molto più sottili e nascoste che vengono proposte all’inconscio del lettore attraverso continue allusioni al partire e al tornare, al perdere e al trovare, a ciò che resta stabile (direi io, il desiderio) e a ciò che muta (i suoi oggetti), alla felicità del passato e a quella del futuro, alle trasformazioni sperate e a quelle temute, a quelle prodotte e a quelle subite, a quelle che rianimano e a quelle che fanno smarrire, all’entusiasmo e alla disperazione, al chiasso e al silenzio, alla folla e al deserto… 


La cosa che colpisce me, che ho conosciuto Riccardo quando avevo due anni, non è certo la sua dimestichezza con le parole e con il loro senso - che è un modello e un conforto per me - ma che le sue parole siano in grado di rivoluzionare reti di senso e di esperienze aggirando in parte la coscienza. Sono parole ben misurate, scelte con estrema cura. Parole che si ripresentano a volte identiche e a volte impercettibilmente mutate all’interno di ritornelli ipnotici che immagino declamati da un palco. Parole musicali e ritmate, che da descrizioni fortemente evocative di paesaggi mediterranei e deserti inconsueti, musiche e vestiti, finiscono regolarmente per introdurre in modo naturale a una o due semplici frasi in cui stanno - io credo, e Riccardo me lo conferma - le considerazioni più generali che l’autore possa fare in queso momento sulla sua personale biografia e sull’esistenza in generale, a partire dall’esperienza di Ulisse e dei migranti.



(c) Gabriele Lo Iacono 2024



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