Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite


La lettura di La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite del prolifico filosofo sudcoreano Byung-chul Han mi ha sostanzialmente deluso per la mancanza di una trattazione sistematica del tema, affidata a brevi appunti poco coesi e privi di ogni argomentazione. 

Tuttavia ho trovato molte affermazioni stimolanti che gettano luce sul fenomeno del rifiuto del dolore, il quale, come sappiamo tutti, è connaturato all’esistenza umana; l’algofobia imperversa negli USA e anche qui possiamo vederne dei segni. 


Qui in tante, troppe persone che conosco vedo il rifiuto fobico del dubbio, dell’incertezza, della difficoltà, della sconfitta, della debolezza, della tristezza, della malattia. 


E spesso mi viene riferito che qualche psichiatra ha somministrato in forti dosi un farmaco contro i dolori dell’anima a una persona in crisi, rinforzando in lei l’idea che “se soffri sei malato di mente e hai bisogno di una terapia”, quando invece la stortura sta in chi si adatta allegramente e in modo incosciente a circostanze e contesti di vita densi di motivi di avvilimento, insoddisfazione, dolore. 


L'equazione "sofferenza = malattia da combattere" è nociva perché aliena l’individuo da una corretta percezione della propria esistenza; tra le righe gli si dice: “Forza! La vita è una bella festa, sei tu che essendo malato non te la godi!”. Tale messaggio patogeno, accompagnato dalla amministrazione di un “analgesico” di qualche sorta, viene accettato più facilmente rispetto a una riflessione seria e approfondita su se stessi, la vita e il mondo, per la quale magari non si possiedono i mezzi o gli interlocutori corretti. 


Passando attraverso questa riflessione si approderebbe sì a qualche gioia, qualche interesse e qualche soddisfazione più solida, in quanto non smentita quotidianamente dalla propria esperienza percepita e interpretata correttamente.


Qualcuno evita certe sofferenze astenendosi dal pensare a qualcosa che vada oltre la percezione della sua esperienza immediata. Qualcuno non può rinunciare al pensiero astratto e cade nell’angoscia, e se non le sa dare un senso ricorre all’analgesia. 



La società senza dolore di Byung-chul Han


Nella bella sintesi del pamphlet fornita da Ivana Porpora, 


“L’algofobia imperversa nel clima neoliberale e intraprende la via di un’anestetizzazione che contagia anche la politica, così producendo una democrazia palliativa che indietreggia davanti alla necessità di riforme dolorose ma urgenti. Alla politica palliativa manca «il coraggio del dolore» (p. 6), così essa è condannata a soggiornare nelle spire dell’Uguale. Dunque, nella società che forgia soggetti di prestazione, la sofferenza è d’intralcio: essa arriva a costituire motivo di scandalo, fino a essere costretta al silenzio. L’imperativo della felicità a tutti costi, una felicità idiota perché non raggiunta tramite la convivenza con il dolore, è per Han, il segno di una violenza coercitiva, che intralcia qualunque moto rivoluzionario, lasciando precipitare l’uomo nella depressione” (https://www.scienzaefilosofia.com/?portfolio=byung-chul-han-la-societa-senza-dolore-perche-abbiamo-bandito-la-sofferenza-dalle-nostre-vite).



Le affermazioni più acute e stimolanti nel libro


"La crisi statunitense degli oppioidi possiede un carattere paradigmatico… Solo un’ideologia del benessere permanente può far sì che i farmaci originariamente utilizzati della medicina palliativa vengano impiegati in grande stile anche su persone sane" (pp. 6-7)


“Gli americani di oggi appartengono probabilmente alla prima generazione sulla Terra che considera un'esistenza priva di dolore come una sorta di diritto costituzionale. Le sofferenze sono uno scandalo" (p.7)


"Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico. Alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi. Per cui si soffoca tra le scorie della positività che vanno accumulandosi sotto la superficie della cultura della compiacenza" (p.7)


"Il dolore è lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente altro" (p.10, a proposito dell’arte)


"Jünger oppone la disciplina eroica alla sensibilità del soggetto borghese il cui corpo non è un avamposto, non è strumento per uno scopo superiore. Il suo corpo fragile è più che altro un fine in sé: perde cioè quell'orizzonte di significato che consentirebbe di cogliere il senso del dolore. Il segreto della moderna sensibilità sta nel fatto che essa corrisponde a un mondo in cui il corpo è il valore supremo. Ne risulta allora che il rapporto di questo mondo con il dolore è il rapporto con una potenza che va innanzitutto evitata, perché qui il dolore non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa” (p. 13)


"Oggi morire ci risulta particolarmente difficile poiché non è più possibile concludere la vita in maniera sensata. Viene terminata al momento meno opportuno. Chi non riesce a morire al momento giusto è costretto a morire in quello sbagliato … la preoccupazione per la buona vita va contrapposta alla lotta per la sopravvivenza" (pp. 21-22)


"L'Altro quale avversario viene fatto sparire. La circolazione delle informazioni e del capitale, che va accelerata, raggiunge la propria velocità massima là dove non incontra più la resistenza immunologica dell’Altro. Per cui i valichi vengono livellati, rendendoli agevoli passaggi. I confini vengono eliminati" (p. 22, a proposito dell'imperversare del politically correct)


"Il dolore è realtà. Sortisce un effetto di reale. Noi percepiamo la realtà soprattutto a partire dalla resistenza, che provoca dolore" (p. 41)


"Il dolore acuisce la percezione di sé. Esso contorna il sé. Disegna i suoi contorni. I comportamenti autolesionistici in aumento si lasciano interpretare come un disperato tentativo dell'io narcisistico, diventato depresso, di sincerarsi di se stesso, di percepirsi. Provo dolore quindi sono. Dobbiamo al dolore anche il senso dell’esistenza. Se scompare del tutto, si cerca un sostituto. Il dolore prodotto artificialmente offre un rimedio. Gli sport estremi e i comportamenti a rischio sono tentativi di sincerarsi della propria stessa esistenza" (pp. 41-42)


"Il Bello è il colore complementare del dolore. Dinanzi al dolore lo spirito si immagina il Bello. Contrappone l'integro al dolorosamente sfigurato. La bella apparenza lo placa. Il dolore spinge lo spirito alla costruzione di un contromondo salvifico e presente, col quale si possa vivere. Esso emerge ogni cosa in una luce nuova e seducente" (p. 44)


 

(c) Gabriele Lo Iacono, 2025


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